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Albatross

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VOTO: 7,5

Inseguendo Coleridge e sfuggendo ai più triti stereotipi della politica

«With my cross-bow
I shot the Albatross»
 Samuel Taylor Coleridge, “The Rime of the Ancient Mariner”

Stando alle reazioni inconsulte di certa stampa, si direbbe che Giulio Base abbia fatto centro. Abbiamo volutamente aspettato qualche giorno, prima di mettere nero su bianco quanto la visione in anteprima stampa di Albatross ci ha da subito suggerito, un po’ perché i temi delicati esplorati dal film necessitavano a nostro avviso di riflessioni più ampie e di approfondimento, un po’ per constatare se effettivamente qualche ostinato elemento riconducibile alla “critica di sinistra” avrebbe alzato i toni su basi aprioristicamente, prettamente, stancamente ideologiche. Purtroppo le più fosche previsioni della vigilia si sono puntualmente avverate.
Se sul Manifesto si parla a briglia sciolta (e senza troppo costrutto) di “revisionismo culturale”, “governo di destra” (nonostante un funzionario della RAI abbia saggiamente precisato come tale progetto cinematografico sia in cantiere da almeno cinque o sei anni), “cinema di propaganda”, “caricature” e “santini”, pedissequamente la breve intro che compare sulla rivista Quinlan presenta in modo alquanto arbitrario il lungometraggio come “opera elegiaca che non cerca mai di indagare la complessità contraddittoria del personaggio”. Peccato che sia proprio la complessità della Storia e la molteplicità dei punti di vista il terreno su cui Giulio Base agilmente si muove. Del resto già nel secondo Dopoguerra un intellettuale del calibro di Curzio Malaparte esprimeva tutto il suo fastidio, eufemisticamente parlando, rispetto al manicheismo e agli altri mali che avrebbero afflitto nei decenni a venire la cultura italiana, resa ostaggio della sempiterna diatriba tra fascisti e antifascisti.

Su questo sfondo grigio che negli ’70 cominciò a farsi incandescente, per gli episodi di terrorismo e lotta armata attribuibili a entrambe le fazioni politiche, è il volo leggero dell’albatros a librarsi alto, non solo per il contingente significato che il nome dell’uccello marino assumerà andando avanti ma anche su un piano squisitamente metaforico. In ciò la sequenza d’apertura del film è per certi versi una dichiarazione di poetica. Scanditi da manifestanti di opposto orientamento ideologico, lo slogan destrorso “boia chi molla è l’urlo di battaglia” e un analogo slogan di sinistra si alternano fin quasi a fondersi, dando vita a una sorta di rap, di litania, già rappresentativa della paradossale complementarità delle parti in lotta. Proprio a Trieste (da sottolineare qui lo sguardo attento dell’autore su una città che, per fortuna, si comincia a vedere sempre più spesso sul grande schermo) i due cortei si fronteggiano, si lanciano provocazioni, si azzuffano fino all’arrivo della polizia antisommossa. Ed è in questa sovreccitata cornice che l’autore ha voluto collocare il primo incontro/scontro tra Almerigo Grilz, militante di destra con un brillante futuro da reporter in svariati teatri di guerra, ed il suo antagonista Vito Ferrari, fittizio giornalista di sinistra modellato però su alcune figure esistenti, reali. Il regista si è divertito così a immaginarli nemici negli scontri di piazza, rivali in amore, ma solidali nell’approccio genuino e generoso a una professione che contempla (o dovrebbe contemplare) in primo luogo la ricerca della verità. Se il suddetto Vito Ferrari viene interpretato in gioventù da Michele Favaro e più anziano da un maestoso Giancarlo Giannini, è il solo Francesco Centorame a interpretare, con apprezzabile energia, il protagonista Almerigo Grilz. Qualcuno si starà forse chiedendo perché non vi è un Grilz anziano? Semplice, lui vecchio non ci è potuto diventare, poiché quasi a emulare la dannunziana “religione del rischio” il giornalista triestino non si è mai sottratto a concrete situazioni di pericolo, nel documentare i tanti feroci conflitti da lui seguiti tra Africa e Asia; fino a cadere sul campo, colpito da una pallottola vagante, nel 1987, durante quella guerra civile che in Mozambico vedeva contrapporsi le milizie di FRELIMO e RENAMO.

Nella sequenza iniziale abbiamo voluto individuare una “dichiarazione di poetica”. Le ragioni sono fondamentalmente due. Da un lato, diversamente dal precedente e più autoriale À la Recherche, Giulio Base sembra rincorrere qui una narrazione sempre briosa ma più popolare, diremmo quasi “pop”, che nel raffigurare scontri di piazza e militanze ideologiche non disdegna neanche quel “giovanilismo” di fondo e quegli stilemi da “coming of age” politicizzato spesso riscontrati, negli ultimi lustri, in ciò che si è soliti presentare come cinema “impegnato” di sinistra. Situazioni alla Mio fratello è figlio unico (2007) di Daniele Luchetti, per intenderci. Ma con una prospettiva a tratti differente.
Ecco, proprio da qui possiamo partire per ricostruire il secondo spunto di rilievo, ravvisato a partire dalle primissime scene. E ci torna quindi utile proprio il parallelo tracciato con Mio fratello è figlio unico. Così si espresse a riguardo, in una successiva intervista, lo scrittore Antonio Pennacchi, autore del romanzo “Il fasciocomunista” cui tale lungometraggio è ispirato: “Il film non è del tutto brutto, ma sicuramente è un travisamento del libro. Se il film è carino è solo perché gli attori sono stati bravi, ma gli autori, quelli hanno cercato di distruggerlo in tutti i modi. La cosa più bella è la prima parte del film, e non a caso è la più fedele al romanzo. Nel film hanno normalizzato il linguaggio politico: se nel mio libro lo sguardo è sulle persone prima di tutto, sugli uomini, nel film questo sguardo è modificato e i fasci sono dipinti come brutti, grezzi e cattivi. Cambiando il finale e la trama hanno nuociuto prima di tutto a se stessi, nel film ci si perde. Gli autori che hanno scritto il film (Rulli, Petraglia e Lucchetti) passano per essere i migliori del cinema italiano, e questo la dice lunga sullo stato del cinema in Italia. Una storia come quella del mio libro non esiste nella narrativa italiana, sono storie vere quelle che racconto. Perché cambiarle?
Con una sorta di “accerchiamento”, stiamo arrivando dritti al punto: in Albatross colui che l’ha scritto e diretto, ossia Giulio Base, non si presta alle narrazioni standardizzate, ai luoghi comuni della cultura politica italiana, alla morale preconfezionata per cui gli estremisti di destra sarebbero tutti “brutti, grezzi e cattivi” come i banditi di uno “spaghetti western”, mentre ai cosiddetti “compagni che sbagliavano” (persino se coinvolti in attentati, gambizzazioni e omicidi politici) si dovrebbe comunque maggior rispetto. Evidentemente il cinema di Base esula dalle “doppie morali”. Evviva. Giacché è sulle sfumature e sul ribaltamento della prospettiva abituale che nello script si è compiuto, a nostro avviso, il lavoro più significativo, senza per questo rinunciare a ovvie questioni identitarie e opportune contrapposizioni dialettiche.

La stimabilissima “novità” del lungometraggio e quindi una cornice antropologica meno artefatta, meno scontata, laddove ad Almerigo Grilz e a certi suoi camerati triestini non vengono certo “condonati” il coinvolgimento in azioni violente o in posizionamenti ideologicamente discutibili, controversi, ma al contempo li si riconosce quali alfieri di una cultura di destra (la potremmo chiamare, in questo caso, “destra sociale”) altresì capace di produrre valide pubblicazioni indipendenti, satira politica d’impronta anti-borghese, musica, fumetti e appoggi non di facciata alle posizioni anti-imperialiste di determinati paesi del Terzo Mondo. Non è certo un caso che l’innovativa agenzia di stampa fondata da Alberigo Grilz assieme ad altri militanti triestini, Gian Micalessin e Fausto Biloslavo (che hanno anche offerto la loro consulenza alla produzione del film), si ispiri nel nome a quell’albatros così caro al protagonista, proprio per la sua predilezione verso “La ballata del vecchio marinaio” di Coleridge.
Incredibilmente ambientata in località del meridione italiano, la seconda parte di Albatross è probabilmente quella più a rischio, sul versante estetico, dovendo raccontare con toni da autarchico “war movie” la presenza di Grilz in molteplici teatri di guerra, dall’Afghanistan invaso alla Cambogia di Pol Pot e alla Birmania impegnata nella repressione della minoranza Karen, per approdare infine a quel Mozambico che sarà anche la sua tomba. Le limitazioni del budget non sono qui un buon viatico, per il realismo delle situazioni belliche e di contesti così esotici, sicché da apprezzare c’è più che altro lo sforzo di rappresentare l’impegno giornalistico del protagonista, portato avanti con spirito di sacrificio e mettendo in gioco la propria vita. Ciò che di più meritevole ha fatto, insomma, il reporter proveniente da una turbolenta militanza politica.
Però qualcuno, lo si accennava in apertura, ha voluto comunque vedere lo sfaccettato biopic come un “santino”, un’agiografia. Pur lasciando trapelare una qualche ammirazione per le scelte di vita più coraggiose e in controtendenza del personaggio, Giulio Base non ha voluto invece tacerne le zone d’ombra, a partire dalla fama giovanile di picchiatore, da talune dichiarazioni in favore del Ventennio e volendo anche dall’eccessivo coinvolgimento, durante i suoi reportage all’estero, nei confronti di milizie dalla condotta tutt’altro che irreprensibile. Questi sono anche gli argomenti all’ordine del giorno, nella scena chiave della discussione presso l’Ordine dei Giornalisti di Trieste, sull’opportunità o meno di ricordare con una targa il giornalista caduto sul campo. La scena ha una tensione interna decisamente alta. Ed è emblematico che lo stesso Giulio Base, ragionando in termini metacinematografici, si sia ritagliato una particina nel cast quale principale accusatore del protagonista, durante l’acceso dibattito. Incarnando così egli stesso “l’antitesi”, in quell’abbozzo di dialettica hegeliana che rende tale opera cinematografica, per quanto non scevra di momenti dichiaratamente empatici nei confronti di Grilz, molto più aperta, problematica e stratificata di come gli aedi del pensiero unico la vorrebbero dipingere.

Stefano Coccia

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