I feel weird, so weird
Quando si pensa a un film “weird”, di solito vengono in mente lavori estremi, sfidanti tanto esteticamente quanto in termini di contenuti, che al bizzarro della messa in scena – e spesso della mescolanza dei generi – uniscono magari la presa di petto, o la rottura, dei tabù. Raramente si fa collimare l’idea di opera weird con quella di feel good movie – tradizionalmente più appannaggio del cinema per famiglie; eppure, questo è esattamente il caso di questo Portal to Hell. In effetti, il film dell’esordiente Woody Bess, presentato nel concorso del milanese Oltre lo specchio Film Festival 2025, parte da una premessa che definire insolita è poco: un portale che si apre direttamente sull’inferno, come promesso dal titolo, nell’oblò di una delle macchine di un’anonima lavanderia di Los Angeles; un portale la cui esistenza – e questo è il particolare davvero bizzarro – viene tranquillamente accettata da tutti come un dato di fatto. L’insolito passaggio sembra esercitare una particolare attrazione/repulsione sul protagonista Dunn (interpretato da Trey Holland), solitario titolare di un’agenzia di recupero crediti, nonché cliente abituale della lavanderia. Quando il demone Chip (Trevor Newlin) si manifesta di fronte all’uomo, il motivo dell’apertura del portale diventa chiaro: una vita, quella di un vicino di casa di Dunn, sta per essere prelevata e portata giù agli inferi. Ma forse è possibile cambiare le cose… a “patto”, per il protagonista, di fare il classico “patto col diavolo”.
Parte come una commedia horror debitrice al cinema di genere degli anni ‘80, Portal to Hell, con un mood che però occhieggia anche all’indie americano del decennio successivo, e un ricercato straniamento di atmosfere (in primis per la tranquilla accettazione della presenza del passaggio) atto quasi a porre il plot in un universo distaccato da quello quotidiano; l’insolito, il bizzarro e il perturbante vengono tranquillamente inglobati nell’ordine narrativo del film, affiancati a una descrizione minimale – e in qualche modo puntuale e realistica – di una realtà umana grigia e malinconica. Del protagonista Dunn, in particolare (di cui più volte viene rimarcato il grottesco cognome, che gli fa iniziare ogni telefonata ai debitori con un “I’m Dunn” che suona come “I’m done”, “ho finito”) colpisce la rigida attinenza alla routine giornaliera, rimarcata dalla regia in una reiterazione di rituali (il caffè mattutino, gli appunti sui singoli debitori vergati sull’agenda, i post-it coi loro nomi) che fa venire in mente gli anelli temporali di Ricomincio da capo e derivati; un’attitudine metodica e impersonale a un lavoro, di fatto, umanamente detestabile (esigere crediti da individui in difficoltà), a evidenziare un’apparente insensibilità di fondo che, forse, cela un segreto. La regia, in questo, è abile nel giocare con l’elemento – tipico dell’horror – della porta socchiusa, puntando forte anche su un contrasto cromatico (l’arancione del portale, il blu elettrico dell’altra “soglia” chiave del film) che fungerà anche da elemento disvelante per la personalità del protagonista.
Attraverso un intelligente rovesciamento del percorso narrativo tipico del genere fantastico – quello di una quotidianità che viene spezzata e sovvertita dall’irruzione dell’elemento straordinario – il film di Woody Bess presenta una realtà già pesantemente deviata, talmente disfunzionale e anestetizzata da far accettare senza batter ciglio la presenza di un portale sugli inferi in uno dei luoghi quotidiani per eccellenza; ma sarà proprio quest’apertura a fungere da elemento capace di far emergere il rimosso, di scuotere tutti i personaggi principali – non solo il protagonista Dunn – costringendoli a fronteggiare quei demoni (reali e simbolici) di cui per troppo tempo avevano finto di ignorare l’esistenza. Così la stessa, curiosa premessa del film, e il mood da giocosa stramberia che sembra caratterizzarlo nella sua prima frazione, si aprono progressivamente a un livello di lettura ulteriore, che svela la sostanza e le implicazioni tutt’altro che scontate – nella varietà di temi che toccano – della sceneggiatura. Sotto la sua patina ludica (mai rinnegata, compresi diavoli con tanto di coda e corna che parlano al cellulare dall’inferno) Portal to Hell parla di solitudine, sensi di colpa mai elaborati, relativismo e universalismo etico, capacità o meno, da parte del singolo, di farsi davvero “artefice” (virgolette d’obbligo) del proprio destino; nonché di urgenza – quasi dolorosa – di recuperare il mai sopito senso di comunità e cooperazione, quello che continua a covare persino nel contesto di un anonimo, gigantesco condominio posto nel bel mezzo di una metropoli.
Qualche recensione da oltreoceano – dove il film di Woody Bess ha comunque ottenuto, generalmente, riscontri più che positivi – ha parlato di Portal to Hell come di un film che tradirebbe le aspettative: come di un’opera, cioè, che sembrerebbe promettere sangue, cadaveri assortiti e gore estremo nel suo spunto di partenza, ma poi non avrebbe il coraggio di portare l’assunto fino in fondo. A nostro modo di vedere, al contrario, questo esordio di Bess mira proprio – consapevolmente – a spiazzare chi guarda, ponendo le basi per un certo tipo di atmosfere e sviluppi narrativi (che si immaginano tra l’horror pulp di certi epigoni tarantiniani e lo splatter degli Yuzna, Gordon e Jackson di fine anni ‘80) per poi puntare in tutt’altra direzione; ma lo fa in modo del tutto deliberato, facendo emergere il suo cuore tematico – che, va sottolineato, non ha nulla di nostalgico, ma resta anzi assolutamente ancorato alla contemporaneità – su di un coté estetico sulfureo e volutamente iperrealista. Così, una (apparentemente) cinica commedia horror di marca indie diventa un feel good movie che, senza scorciatoie emotive o facili derive verso un melò di grana grossa, riesce persino a evocare Frank Capra (passateci l’accostamento, impegnativo ma a nostro avviso per niente peregrino) e a rintracciare una sua via, originale, alla positiva contaminazione dei generi. Una contaminazione che, in questo caso, non può che contemplare la presenza sullo stesso palcoscenico, paritaria quanto a peso, di angeli e di demoni. Ma, poi, siamo sicuri che la distinzione tra le due categorie sia tanto netta?
Marco Minniti









