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Maya, Give Me a Title

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VOTO: 8,5

In un film di papà

Tutti almeno una volta nella vita abbiamo sognato di essere il o la protagonista di un film. Se poi a dirigerlo dovesse essere uno come Michel Gondry allora l’esperienza è destinata a diventare ancora più entusiasmante, date le elevatissime capacità immaginifiche e la fantasia strabordante che il regista francese ha in dotazione e con le quali ha caratterizzato il suo cinema. Ne sa qualcosa la figlia Maya, divenuta a sua saputa il personaggio principale della nuova pellicola del cineasta di Versailles, il cui titolo è già di per sé una dichiarazione d’intenti di ciò che transiterà sullo schermo. In Maya, Give Me a Title (Maya, donne-moi un titre) è proprio lei a dettare quelle che sono a tutti gli effetti le regole del gioco, un gioco audiovisivo che il Gondry padre e regista ha voluto creare, prendendone anche parte, quando di anni Maya ne aveva tre e i due erano costretti a stare distanti per gli impegni lavorativi di lui negli Stati Uniti per la serie Kidding.
Dalla lontananza è nato un delizioso film d’animazione di una sessantina di minuti realizzato in stop motion con la cut-out animation, una tecnica che utilizza pezzi di carta ritagliati con la forbice e uniti con lo scotch, proprio come quei lavoretti che tutti abbiamo fatto a scuola nella nostra infanzia, disposti poi a formare dei fotogrammi per creare dei collage in movimento fotografati con uno smartphone che scorrono al ritmo di 12 al secondo. Il tutto sonorizzato e completamente fatto a mano e arricchito da didascalie e disegni a matita o colorati con dei pastelli. L’autore la prende in prestito e la utilizza come a suo tempo hanno fatto la pioniera Lotte Reiniger e i Monty Python per le loro celebri animazioni surreali. Con e attraverso di essa l’autore crea storie animate partendo da spunti di sceneggiatura suggeriti dalla bambina in una specie di rituale: “dammi un titolo e io ne faccio un film”. Il risultato è un’antologia di racconti animati appartenenti a generi differenti come il fantasy, il disaster movie, il poliziesco e persino l’horror, che hanno sempre come protagonista una Maya che dovrà vedersela con un terremoto, con una banda di gatti ladri o con un mare di ketchup.
C’è chi ha parlato di Maya, Give Me a Title come di una lettera d’amore di un padre alla propria figlia e chi, invece, ha paragonato il film a un nuovo tipo di favola della buonanotte. Entrambe le definizioni ci trovano pienamente d’accordo, perché lo riteniamo una combinazione perfetta di esse. Gondry dà così libero sfogo alla sua sfrenata fantasia, una materia prima che maneggia come pochi altri colleghi in circolazione e che gli ha permesso di dare forma e sostanza a pellicole straordinarie come Se mi lasci ti cancello o L’arte del sogno, tanto per citarne qualcuna. L’animazione gli consente però di spingersi e spingere la sua immensa creatività ulteriormente oltre il limite e con essa alimentare il proprio stile e modus operandi. Qui attinge da momenti quotidiani, lasciandoli evolvere in universi surreali e fiabeschi, che poi è quello che è solito fare durante la fase di scrittura e trasposizione, iniziando da una situazione di vita molto banale che poi si trasformano in accadimenti e cose magiche. Ciò è alla base di tutti i singoli racconti che vanno a comporre questo meraviglioso e divertentissimo zibaldone animato.
Non è la prima volta che il regista francese se ne serve, basti pensare alla sua conversazione animata con Noam Chomsky in Is the Man Who Is Tall Happy?, il corto My New New York Diary, sorta di fumetto animato in cui il regista mette la disegnatrice Julie Doucet dentro le sue stesse tavole, o ancora l’inserto del personaggio di una volpe all’interno di Il libro delle soluzioni. Tutte le volte, compresa quest’ultima, si assiste a un dispositivo visivo volutamente rudimentale e infantile che risveglia nello spettatore il bambino che c’è in lui, trascinandolo in una dimensione che non ha confini fisici. Purtroppo, salvo rarissime eccezioni, l’animazione d’autore fa fatica a intercettare un pubblico su larga scala, motivo per cui perle simili quali possono essere difficilmente riescono ad arrivare nelle sale. Per fortuna ci sono le vetrine festivaliere che offrono importanti occasioni di visibilità a opere come Maya, Give Me a Title, che noi abbiamo avuto il piacere e la fortuna di recuperare in quel di Milano nel fuori concorso della 18esima edizione di Piccolo Grande Cinema, dopo la fortunata anteprima mondiale alla Berlinale 2025 dove si è aggiudicato l’Orso di Cristallo per il miglior film della sezione “Generation Kplus”.

Francesco Del Grosso

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