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Imago

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VOTO: 8

Polonia bipolare

In concorso al SEEYOUSOUND 2025 nella sezione LP FEATURE, ossia tra i lungometraggi di finzione, Imago di Olga Chajdas proietta negli anni bui della Polonia comunista quelle spinte anticonformiste, quel profondo turbamento esistenziale e un ostinato senso di ribellione che bucano quasi lo schermo, assieme al volto così magnetico della protagonista. E qui sta il bello! Poiché, a rinvigorire ulteriormente l’archetipo del “doppio” così radicato nella settima arte, la protagonista (e co-sceneggiatrice) Lena Góra interpreta qui la madre Ela, che fu realmente nel periodo in questione un’icona post-punk dallo spirito tormentato e ribelle.

Decisamente, meravigliosamente punk e anarcoide è anche l’estetica cui s’appoggia nella circostanza l’autrice, Olga Chajdas, di cui si ricorda positivamente il lungometraggio d’esordio Nina, ma che in precedenza era stata pure assistente alla regia di Agnieszka Holland per film importanti come In Darkness e L’ombra di Stalin.
Un’ottima scuola, non c’è che dire. E la Chajdas da simili set pare aver appreso molto, considerando la sua propensione per il simbolo, la sovreccitata attenzione rivolta al timbro e ai toni della fotografia, la capacità stessa di far uscire l’anima dai personaggi.
Per quanto riguarda l’anima, quella di Ela Góra è da subito in fiamme: la vediamo entrare e uscire da ospedali psichiatrici, la cui rappresentazione persino un po’ surreale (davvero fantasmagorica l’ipnosi collettiva data, nelle ore notturne, dall’apparire della luna rossa) finisce per porsi, con una certa naturalezza, quale metafora del paese stesso. Sullo sfondo l’inquietudine di una Danzica scossa dalle rivendicazioni sociali di Solidarność, in casa una famiglia che tende a reagire in modo gretto all’evidente bipolarismo della ragazza: i più ottusi appaiono di sicuro i fratelli, un’autentica “tribù” di fratelli (e sorelle) che non brillano certo per empatia, mentre già più complesso, sfuggente appare il rapporto con la madre, destinato anch’esso a sfociare nel “doppio” allorché sarà Ela a dover affrontare una maternità.

L’impeto e la volontà di non omologarsi esibiti in famiglia si rispecchiano poi nella tendenza ancor più marcata a scioccare l’interlocutore, a cavalcare qualsiasi provocazione (estetica e comportamentale), a sperimentare tanto nell’arte che nei sentimenti, con cui Ela Góra si fa strada negli ambienti più underground della Polonia dell’epoca. Non a caso a contendersi le attenzioni della ragazza sono un fotografo, un pittore e il frontman della band parecchio “alternativa” con cui Ela comincia, apparentemente per caso, a condividere il palco. Complici alcune inquadrature rivelatrici della Chajdas, lo sguardo dei maschi sembrerebbe fagocitarla. Ma è solo un’illusione, poiché la sovversiva artista riesce sempre ad evadere, anche da quelle gabbie mentali. E la sua forza irriducibile è resa in modo sontuoso, incredibile, da un’interprete, Lena Góra, che finisce per dominare la scena sia con la propria disinvolta fisicità che a livello puramente concettuale.

Stefano Coccia

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