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Blazing Fists

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VOTO: 8

Tutto in un minuto

Tra i dieci titoli in concorso alla prima edizione del Milano Film Fest, quello più altisonante è sicuramente Blazing Fists, perché su di esso è stampato a caratteri cubitali il nome di Takashi Miike. Si tratta del nuovo tassello della sconfinata filmografia del regista di culto in oltre trent’anni di onorata carriera dietro la macchina da presa, che dopo l’anteprima nella sezione “Limelight” del 54° International Film Festival Rotterdam è stato presentato nella competizione meneghina, laddove ha scosso la platea con la carica dirompente di una storia che sprigiona rabbia e dolore e il furore di una messa in quadro adrenalinica e stilisticamente roboante. Caratteristiche, queste, che fanno parte in maniera indissolubile del codice genetico e del DNA del suo autore sin dagli esordi. Anche stavolta il cineasta giapponese non ha intenzione di scendere a compromessi, a cominciare dalla violenza, che qui, funzionale e non gratuita, sale via via di brutalità sino a deflagrare sullo schermo nell’epilogo.
Come buona parte delle produzioni di Miike, pure quest’ultima, scritta a quattro mani con Kibayashi Shin, parla di e ai giovani. Giovani che combattono nel senso letterale del termine per rivalsa e rivincita con se stessi, la vita, la società e il mondo spietato e privo di umanità che li circonda, ma anche per chi amano. La mente in tal senso torna a First Love. Quelli protagonisti di Blazing Fists sono due diciassettenni che stanno scontando la loro condanna in riformatorio: Ikuto per un crimine che sembra non aver commesso – come del resto suo padre, in carcere per uno scambio di persona durante le indagini – mentre Ryoma a causa di una bravata nel tentativo di sanare un grosso debito nei confronti della piccola gang di quartiere. Ispirati da una conferenza del maestro di arti marziali Mikuru Asakura, i due decidono di partecipare al “Breaking Down”, un frenetico torneo di combattimento organizzato dal sensei, nel quale fighter di ogni tipo hanno a disposizione un solo round della durata di un minuto. La determinazione e il desiderio di riscattarsi di Ikuto ispirano anche Ryoma ad andare in palestra. Ma un avversario inaspettato mette i bastoni tra le ruote al sogno di cambiare il loro status all’interno della rigida società giapponese.
Come in moltissimi altri suoi film anche in questo Miike fonde azione, dramma e critica sociale, mescolando senza soluzione di continuità generi e toni fino a creare un’esperienza cinematografica che raccoglie sequenze di combattimento iper-realistiche (vedi quelle sul ring e la maxi rissa finale) e momenti introspettivi che stemperano e restituiscono al fruitore uno spaccato di giovani emarginati. Per cui la violenza mostrata, anche se esasperata ed estetizzata, diventa di fatto una parte integrante del discorso e non un ludico sfoggio fine a se stesso come si potrebbe pensare a una lettura più superficiale. I corpi martoriati e segnati in tal senso sono metafore e riflessi della società. Sulla timeline assistiamo quindi a delle sfide quotidiane alle quali sono chiamati a rispondere con calci e pugni i personaggi di turno, qui interpretati con intensità e presenza fisica da Kinoshita Danhi e Yoshizawa Kaname. Entrambi prestano il proprio corpo alla causa, consegnando all’opera e agli spettatori delle performance di grande impatto, così come la regia del solito Miike, fonte in inesauribile di soluzioni visive che sprigionano cinetica ed energia tellurica da ogni singolo fotogramma.

Francesco Del Grosso

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