Non essere diverso
Parole in sottofondo. Il rumore graffiante della radio. Il contesto entro il quale si svolge la storia di Ambaradan, selezionato all’IveliseCineFestival, non è fantascienza, e non è neanche tipico dei racconti dal forte tratto pessimistico. Tutto questo è nell’aria già da molti anni, visibile nelle immagini dei giornali, nei tg nazionali e nei talk show che trattano di politica. “Blocchiamo i barconi”, “Basta immigrati“, “Siamo stufi”, sono uno dei tanti slogan che si sentono quotidianamente. Qui il giornale radio afferma che è in atto una protesta a Lampedusa, con la popolazione cittadina che non ce la fa più con i continui sbarchi che si presentano nei litorali dell’isola. Il clima preannunciato in questa prima sequenza non è dei migliori. La gente si sente sola, e la segregazione molto spesso si tramuta in rabbia, odio verso chi si trova nelle stesse condizioni ma che, secondo loro, non ne ha alcun minimo diritto. “A casa, a casa li dobbiamo aiutare. Già siamo in troppi. Ce ne abbiamo abbastanza di zingari, neri e terroristi”. Una voce dal timbro tipicamente romano, ma l’inquadratura, mentre si sposta verso il personaggio, rivela la sua vera identità.
Luca è italiano, adottato da una famiglia e cresciuto con valori e tradizioni di questo Paese. L’unico aspetto che lo contraddistingue dagli altri è il colore della pelle, un marchio sociale difficile da nascondere. Se sei nero, sei un immigrato. Se sei un immigrato, molto probabilmente sei un criminale. E se sei un criminale, allora perdi ogni diritto acquisito. Questo paradossale processo mentale, che porta inevitabilmente alla disumanizzazione, il protagonista lo subisce sin da bambino, come lui stesso racconta alla madre nelle tante occasioni nelle quali viene schernito dai suoi compagni. Tenta persino con il sapone di eliminare quel colore che gli sta portando solo tormenti, come se fosse un’etichetta che la società gli ha affibbiato impedendogli di essere umano. Tuttavia quando si è nell’era della post-verità, è difficile stabilire cosa è reale e cosa non lo è, perché quello che conta è ciò che la gente crede. Luca, nonostante l’educazione della madre, si convince di non essere italiano, e per diventarlo deve seguire quelle che sono delle regole impartite da determinati gruppi, dalla violenza all’uso di termini denigratori verso cittadini di diversa etnia. Il corto di Amin Nour e Paolo Negro entra con determinazione all’interno di questioni politicamente rilevanti e che riguardano interamente la comunità, mostrando che il processo d’integrazione non solo non è mai avvenuto nei fatti, ma ha mancato l’obiettivo di garantire dignità e appartenenza a una comunità sempre più eterogenea. Gli attori esprimono al meglio questi concetti per tutta la durata del racconto, trasmettendo in una chiave più ampia le sensazioni di instabilità sociale (soprattutto nei quartieri periferici) e un senso di inquietudine interiore per la loro incapacità di trovare una condizione migliore.
La regia è un altro grande punto a favore di questo lavoro, capace di amplificare quanto descritto con ottime scelte sia per quanto riguarda le inquadrature (ferme e con una fotografia ben calibrata), i tagli di montaggio, che per il sonoro. Ambaradan è incisivo, capace in pochi minuti di insegnare il rispetto verso l’altro rispetto alle ore di comizi su piccolo schermo.
Riccardo Lo Re