Una ferita che attraversa più generazioni
Proprio mentre a Gaza l’Inferno sulla Terra scatenato dai sionisti pare non avere più limiti, portare la questione palestinese al cinema è sempre più una questione morale. Di positivo a margine dell’immane tragedia vi è soltanto il fatto che tra festival cinematografici e programmazione in sala non vi è affatto scarsità, in questo momento, di opere tanto incisive sul piano testimoniale quanto ben concepite a livello estetico, narrativo. All’ultima Mostra del Cinema di Venezia si sono distinti in tal senso il documentario Who is Still Alive (Qui vit encore) dello svizzero Nicolas Wadimoff e soprattutto il lancinante The Voice of Hind Rajab della regista tunisina Kaouther Ben Hania, lungometraggio di finzione (ma con crudeli irruzioni della realtà) che prende di petto proprio i massacri recentemente compiuti a Gaza e che uscirà nelle sale a breve, forte anche del sacrosanto Gran Premio della Giuria tributato al Lido.
Al cinema Officine Ubu ha appena distribuito, invece, Tutto quello che resta di te (All That’s Left of You) di Cherien Dabis, film nei confronti del quale quale il nostro consiglio necessariamente si sdoppia: da un lato non perdere l’occasione di vedere questo piccolo, dolente capolavoro sul grande schermo; dall’altro privilegiare, se possibile, la versione originale coi sottotitoli, giacché i talora aspri confronti linguistici tra le parti possono rendere ancora più “immersivo” l’avventurarsi in una così fosca pagina di Storia.
Un po’ come l’ottimo Shoshana di Michael Winterbottom, sebbene con una base cronologica e angolazioni in parte differenti, Tutto quello che resta di te risale alle origini del conflitto arabo-israeliano e più in particolare di ciò che i palestinesi conoscono come Nakba («la catastrofe») ossia l’esodo forzato di circa 700.000 arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso del conflitto regionale del 1948 e della guerra civile che lo precedette. Difatti Israele, prendendosi gioco sin dalla sua poco fausta creazione delle leggi internazionali, impedì l’esercizio del diritto di rientrare a casa, sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite, mentre i profughi venivano sistemati in campi gestiti dai Paesi arabi ospitanti e dalle organizzazioni internazionali.
Avvalendosi di una narrazione a incastri articolata su svariati decenni, accompagnando i propri personaggi lungo l’esilio da Giaffa a quelle località della Cisgiordania su cui il controllo dei militari israeliani sarebbe diventato di giorno in giorno più stretto, feroce, la talentuosa attrice, regista, produttrice e sceneggiatrice palestinese-americana Cherien Dabis ha dato vita così a un’opera cinematografica al contempo corale e intimista, che parla al cuore dello spettatore senza che ci si dimentichi mai di affrescare, con pennellate decise e potenti, un adeguato background storico-politico.
Nel procedere poi a ritroso nel tempo, il così vibrante racconto cinematografico isola sin dalle battute iniziali il trauma più grave affrontato dalla famiglia protagonista, a coronamento di violenze e soprusi subiti per mano israeliana nell’arco di ben tre generazioni; ovvero il vigliacco, letale ferimento di un adolescente, Noor, finito sotto i colpi delle armi da fuoco sioniste durante l’Intifada, nel 1988; l’assurda tragedia famigliare che ne consegue da un lato riporta indietro le lancette della Storia alla crudele diaspora del 1948, di cui verranno ricostruite le fasi più sofferte, dall’altro proietta i genitori dell’innocente ragazzo verso possibili scelte, i cui orizzonti etici hanno un peso sia a livello individuale che quale metafora del rapporto a dir poco “asimmetrico” tra la popolazione ebraica e quella palestinese. Con alcune implicazioni diegetiche che ci azzardiamo a definire “almodovariane” senza deliberatamente aggiungere altro, per non togliere allo spettatore il gusto di scoprire ogni cosa da solo. Così come non vogliamo entrare nello specifico di un epilogo, immaginato a distanza di anni, la cui impronta lirica e malinconia rientra tra le cose più belle, per quanto tristi, viste al cinema negli ultimi anni.
Stefano Coccia