Dalla Palestina al Salento
Non è affatto casuale che Shoshana di Michael Winterbottom nel 2023 abbia aperto il Festival del Cinema Europeo a Lecce. Difatti che l’eclettico cineasta britannico vanti un feeling particolare con l’Italia è noto già da parecchio: a testimoniarlo l’intimista, umbratile Genova – Un luogo per ricominciare, come pure il più cronachistico (e di fatto meno ispirato) Meredith – The Face of an Angel.
Con Shoshana però la posta in palio si è fatta decisamente più alta, vista la natura della sfida: girare in location pugliesi, spaziando tra Brindisi, Taranto vecchia e qualche ameno angolo del Salento, un teso racconto cinematografico ambientato in realtà nella prima metà del Novecento in Medio Oriente. Per essere più precisi in Palestina, allorché le tensioni tra la componente araba della popolazione e gli stanziamenti ebraici in continua espansione avevano finito per generare, agli occhi di un’amministrazione britannica (subentrata dopo la Prima Guerra Mondiale alla plurisecolare presenza ottomana) in preda a forte imbarazzo, quel quadro di instabilità profonda, tale da spingere gli inglesi ad azioni repressive discutibili e controproducenti sia nel metodo che nelle conseguenze, davvero infauste, specie se si guarda agli eventi a venire.
Resa credibile l’ambientazione, già questo un piccolo miracolo, Winterbottom si è mosso egregiamente nell’alveo di un cinema che gli sta particolarmente a cuore, quello cioè che pone a contatto con la grande Storia l’etica individuale, le reazioni dei singoli al precipitare degli eventi, nonché vicende sentimentali sempre rappresentate con un certo coinvolgimento emotivo e sensoriale.
L’inizio è comunque di taglio semi-documentaristico. Interessantissimi, tra l’altro, quei materiali di repertorio che per tutto il corso del film e con la complicità di una voce fuori campo illustreranno passo passo la situazione in Palestina, dal crollo dell’Impero Ottomano fino alla nascita di Israele, passando attraverso tutto un proliferare di movimenti irriducibili, radicali, estremisti, tanto di marca sionista che araba.
Come si accennava prima la Storia sullo sfondo, l’individuo in primo piano. L’attenzione si sposta infatti da subito sulla contrastata storia d’amore tra un inglese, il vice-sovrintendente della polizia palestinese Thomas Wilkin, e la figlia del cofondatore del movimento operaio sionista Ber Borochov, per l’appunto Shoshana. Nel frattempo però Tel Aviv, città di recente fondazione (e in costante crescita) dove entrambi vivono, sussulta di terrore a ogni attentato, a ogni azione di rappresaglia; al pari di tutta la martoriata regione, del resto, con la parte araba e quella ebraica pronte a scannarsi tra loro come pure con i britannici, la cui presenza di stampo coloniale suscita astio in entrambe le fazioni.
Effettuando una scelta di campo (ma solo a livello diegetico) forte, destinata magari a generare discussioni, motivata però con grande lucidità nell’arco di tutta la narrazione, il cineasta nativo di Blackburn posiziona la propria lente di ingrandimento, in primis attraverso Shoshana Borochov e il suo ristretto gruppetto di amici, sulle differenze di pensiero (e logicamente d’azione) in ambito sionista. Lo spettatore esce dalla visione, complice pure il pathos della storia sentimentale tra i protagonisti, decisamente più consapevole di quali distanze vi fossero a livello ideologico e – soprattutto – di come operassero da un lato l’Haganah, organizzazione paramilitare ebraica attiva in Palestina durante il mandato britannico dal 1920 al 1948, dall’altro gli estremisti vicini alle posizioni più oltranziste di Vladimir Žabotinskij, ovvero l’Irgun Tzvai Leumi o semplicemente Irgun.
Al fine di avvicinare il grande pubblico a fatti non così universalmente noti, oltre che per scardinare la logica altrimenti un po’ “ingessata” del film in costume, Winterbottom ha fatto ottimo uso di linguaggi già ampiamente utilizzati in passato, mescolando il mélo con quelle tinte noir, pronte qui a contaminarsi coi più crudi stilemi di un thriller politico fatto anche di delazioni, tradimenti, accordi sottobanco, giustizia sommaria e feroci attentati esplosivi, concepiti questi ultimi a ridosso dei picchi di una colonna sonora a dir poco vibrante e ansiogena.
Chi esce peggio di tutti da questo gioco al massacro, nonostante sia rappresentato in scena tanto da personaggi virtuosi come Wilkin che da altri cinici e spietati come il collega Geoffrey Morton (quasi a replicare, in scala minore, l’assunto di Oliver Stone in Platoon) è proprio l’Impero Britannico al tramonto; il che rende anche Shoshana una sorta di “autodafé” smaccatamente british, concepito qui da Michael Winterbotton con quella maturità politica, commisurata alla capacità di formulare teoremi cinematografici scomodi, impavidi, che abbiamo potuto riscontrare più volte nel suo cinema. Vedi in primo luogo Benvenuti a Sarajevo e ancor più quel graffiante, lucido atto d’accusa che è The Road to Guantanamo (le scene così crude degli interrogatori qui vi si avvicinano molto), entrambi esemplari per la stessa, riuscita ibridazione di linguaggi cinematografici differenti.
Stefano Coccia