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The Running Man

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VOTO: 5,5

Showtime!

È proprio il caso di dire visto il titolo dell’opera della quale ci apprestiamo a parlare che correva letteralmente l’anno 1987 quando sugli schermi approdava L’implacabile, adattamento cinematografico del romanzo “The Running Man” di Stephen King, che lo pubblicò con lo pseudonimo di Richard Bachman nel 1982. Divenuto a sua volta un vero e proprio cult, il film diretto da Paul Michael Glaser e interpretato da Arnold Schwarzenegger in realtà era una sua libera trasposizione, facilmente riscontrabile dalle differenze più o meno sostanziali che diversificano sul piano narrativo le pagine delle matrice letteraria da quelle dello script firmato da Steven E. de Souza per la pellicola del regista statunitense.
Differenze e analogie a parte, il risultato non tradì le attese, tanto da essere ancora ben voluto dagli appassionati del genere fanta-action e dagli estimatori del libro dal quale è tratto. Di diversa opinione forse Edgar Wright che nel 2025, anno in cui tra l’altro è ambientata la vicenda originale (L’implacabile invece aveva spostato le lancette al 2017), ha voluto realizzare un adattamento molto più fedele al romanzo di King, prendendosi solo qualche libertà rispetto alla materia originale e ovviamente attualizzandola (vedi il discorso sull’A.I.). Il nuovo adattamento non è dunque un remake del primo film, al quale però rende omaggio con qualche riferimento e citazione presente qua e là nel corso della timeline, piuttosto una vera trasposizione della matrice letteraria. Ad affiancarlo in fase di scrittura Michael Bacall, con il quale firma a quattro mani lo script di una pellicola che ci scaraventa nella visione futuristica e distopica così come l’aveva pensata e restituita nero su bianco l’autore quarant’anni fa.
Siamo negli Stati Uniti d’America, una nazione diventata un regime totalitario corrotto in cui il cittadino medio è afflitto dal collasso economico e dagli alti tassi di criminalità. Ben Richards fatica a permettersi le spese sanitarie per la sua figlia malata e una volta rimasto disoccupato e in lista nera, sceglie di tentare di ottenere tutti i soldi necessari per sostenere la propria famiglia partecipando alla competizione televisiva “The Running Man”, in cui i concorrenti diventano fuggitivi mandati a percorrere la nazione e vincono un sostanzioso premio in denaro se sopravvivono per 30 giorni evitando di essere uccisi da un gruppo di loschi agenti speciali. Ma il gioco non è limitato solo a questi giocatori — la TV paga i cittadini d’America per segnalazioni del fuggitivo, o per informazioni che portino direttamente alla sua fine. Il “fuggitivo” può andare ovunque nel mondo, se riesce a viaggiare in modo anonimo. Ogni giorno il corridore deve girare due brevi filmati che deve spedire allo show. Se non lo fa, l’erogazione del premio viene interrotta.
A differenza della pellicola del 1987 quindi non ci troviamo in un’arena, ma la lotta per la sopravvivenza e il montepremi si combatte a tutto campo, con la minaccia per il protagonista che si duplica, perché oltre ai cosiddetti “cacciatori”, Richards dovrà guardarsi le spalle anche dallagente comune. Materiale, questo, che nell’immaginario di chi l’ha concepita si era andata a mescolare sapientementee senza filtri con argomentazioni dal peso specifico rilevante: dal voyeurismo televisivo alla critica al totalitarismo, dal controllo dei media con annessa l’inevitabile manipolazione del reale e la conseguente costruzione di miti, volti e corpi plasmati ad hoc sulla base degli insaziabili appetiti del pubblico alla fame di violenza, intrattenimento e morte della società moderna. Il The Running Man di Wright invece riprende le suddette tematiche, ma le utilizza alle pari di un pretesto e le depotenzializza restituendole solo superficialmente per portare sullo schermo nient’altro che intrattenimento fine a se stesso, a uso e consumo dello spettatore generalista e non di colui che osserva, riflette e scava nella materia trattata. Viene da sé materializzarsi davanti ai nostri occhi non più quello che aveva raffigurato King con ferocia, ma un film che punta più alla forma che ai contenuti, ma sopratutto sulla componente action, quasi fosse un clone della saga di The Hunger Games e non qualcosa che l’ha profondamente e dichiaratamente ispirata a sua volta.

Francesco Del Grosso

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