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Palestine 36

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VOTO: 7

Schiacciati tra la “perfida Albione” e i Sionisti

Una volta tanto non è “moda”, ma necessità. Per cui non possiamo far altro che salutare con favore e rispetto quel proliferare di visioni cinematografiche, atte a testimoniare l’entità della tragedia palestinese, che si sono accavallate negli ultimi tempi consentendoci di analizzare la questione dai più svariati punti di vista. La Festa del Cinema di Roma 2025 non è stata finora avara di contributi, in tal senso. E se l’impressione più forte è senz’altro quella lasciataci da Put Your Soul on Your Hand and Walk della cineasta iraniana Sepideh Farsi, su cui torneremo più approfonditamente non appena lo shock si sarà attutito, notevole è stato anche l’impatto di Palestine 36, il film di Annemarie Jacir presentato la mattina del 18 ottobre in anteprima all’Auditorium.
Con Palestine 36 siamo dalle parti del (melo)dramma storico, ma ancor più importante è che ci si trovi catapultati nuovamente in quella prima metà del Ventesimo Secolo, foriera di luttuose novità e di foschi presagi per il popolo palestinese oggetto oggi di chiari intenti genocidiari, da parte israeliana. Lo spirito e le coordinate storico-geografiche, insomma, sono un po’ quelli che abbiamo già riscontrato nell’incipit di Tutto quello che resta di te e in Shoshana. Con quest’ultimo Palestine 36 ha inoltre in comune la chiara denuncia delle responsabilità britanniche nel progressivo degenerare della situazione in Medio Oriente. Magari il film di Michael Winterbottom descriveva l’operato delle parti in causa con maggior sottigliezza, attraverso una visione degli eventi più analitica, strutturata, mentre quello diretto da Annemarie Jacir punta con maggior decisione al coinvolgimento emotivo dello spettatore. Ma le intenzioni di fondo possono essere considerati simili.

La coralità della narrazione è in ogni caso per Palestine 36 uno dei punti di forza. Gli accadimenti al centro di questa vibrante opera cinematografica, le cui riprese sono avvenute principalmente nella vicina Giordania e che figura già quale candidato ufficiale palestinese all’Oscar per il Miglior Fim Straniero, pur nell’alveo di una necessaria e opportuna drammatizzazione fanno riferimento a un anno cruciale per tali eventi, il 1936, laddove i crescenti soprusi e i primi espropri violenti di terre portati avanti dalle colonie ebraiche condussero, considerate l’insensibilità e la risposta non imparziale del Mandato britannico, a quella grande rivolta araba repressa poi dalle autorità inglesi con una brutalità troppo spesso relegata nei libri di Storia tra le “note a margine”. La regista palestinese Annemarie Jacir non ha invece peli sulla lingua e attraverso le inaudite sofferenze di Jusuf e dei suoi famigliari ci mostra, registicamente parlando con qualche eccesso melodrammatico sebbene si resti sempre nell’alveo di una ricostruzione fedele e sincera, tutta la ferocia e il cinismo di quel potere coloniale che un tempo, magari, sarebbe stato ricondotto al poco gratificante nomignolo di “perfida Albione”. Le crudeltà verso la popolazione locale di un torvo ufficiale britannico dal chiaro orientamento sionista si rivelano qui esemplari. Ma all’interno di un cast decisamente composito, con grandi attori anglosassoni mirabilmente arruolati per affiancare interpreti mediorientali, spicca anche la presenza del leggendario Jeremy Irons, prestatosi a interpretare un personaggio importante ma anche odioso come Arthur Wauchope, l’Alto Commissario per la Palestina e la Transgiordania ivi esecutore delle deleterie direttive tracciate tempo prima da Lord Balfour (citato anche sprezzantemente, quest’ultimo, in un momento assai significativo del film), individuo macchiatosi a sua volta di non poche responsabilità per quanto concerne il precipitare degli eventi in quella fase storica così convulsa ma ancor più per le conseguenze registratesi negli anni a venire.

Stefano Coccia

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