Mors tua vita mea
In uno dei suoi romanzi più riusciti dal titolo “La fine del mondo storto”, Premio Bancarella nel 2011, Mauro Corona ipotizza la fine delle fonti energetiche non rinnovabili nel nostro mondo e di come l’uomo per sopravvivere dovrà recuperare le capacità che aveva perduto creando una nuova società con dei nuovi valori e con un migliore rapporto con il mondo stesso e con la vita. Nel 2012 Peter Brosens e Jessica Woodworth, qui alla loro terza esperienza dietro la macchina da presa nel lungometraggio di finzione dopo Khadak e Altiplano, scelgono invece di mostrare in La cinquième Saison gli effetti devastanti che un repentino e inspiegabile stravolgimento della naturale ciclicità delle stagioni possono provocare sull’esistenza umana, mettendola seriamente in pericolo di estinzione. Fortunatamente lo scenario apocalittico che si manifesta sul grande schermo, causa di una inevitabile regressione comportamentale dell’essere umano tornato a rispolverare per l’occasione la locuzione latina mors tua vita mea, è solo il frutto della capacità immaginifica di una coppia di registi. Il ché non toglie però all’opera in questione quella chiave di lettura metaforica che è comune a pellicole distopiche che attraverso catastrofiche visioni futuribili vogliono ammonire e mettere in guardia l’essere umano e lanciare un grido dall’allarme in difesa dell’ambiente e di chi lo popola. Un grido al quale a distanza di tredici anni dalla sua realizzazione il Festival CinemAmbiente ha voluto fare eco come cassa di risonanza, riportando la pellicola sul grande schermo in occasione della sua 28esima edizione.
Ma al di là del senso letterale e della evidente rappresentazione dell’egoismo umano, la suddetta locuzione si usa quando in una competizione o nel tentativo di raggiungere un traguardo ci sarà un solo vincitore. Spesso nell’eterna lotta tra uomo e natura a prevalere è il primo, tranne quando il secondo in passato ha voluto fare la voce grossa, ribellandosi e riappropriandosi di ciò che le appartiene, nella maggioranza dei casi con un costo altissimo di vite. Il tutto va in scena in un villaggio dell’Ardenne, dove il prolungarsi di uno strano fenomeno climatico comincia a preoccupare gli abitanti: l’inverno sembra non finire mai, gli animali rimangono in letargo, l’intero ciclo naturale ne viene sconvolto. Gli adolescenti Alice, Thomas e Octave, trovando riparo sotto l’ala dell’apicoltore itinerante Pol, lottano per dare un senso alla propria vita, mentre attorno ogni gioia si spegne. Ma lo slancio della loro innocenza non è sufficiente a superare la crescente tensione che progressivamente contamina i rapporti umani all’interno della piccola comunità. Trascorrono i mesi e la crisi matura in una violenza e avidità destinate ad esplodere, trasformando gli individui in creature mostruose, sempre più svuotate e massificate dal loro stesso odio.
La cinquième Saison ci parla proprio di questo, di come la natura un giorno decida di scagliarsi contro l’arroganza umana: non fa niente, non dà niente, nega fertilità alla terra e in questo modo provoca la rapida implosione di un’intera comunità. La coppia belga costruisce così un disaster movie minimalista, nel quale scenari mozzafiato come quelli delle Ardenne si inaridiscono sino a diventare un “corpo” morto e inanimato. Minimalista perché la fantascienza si mescola con il sovrannaturale, dando vita a uno scenario apocalittico tremendamente reale, presagio di un presente terrificante che non ha bisogno di proiettarsi in un futuro prossimo. Brosens e Woodworth vi restano attaccati, perché a spaventarci è più il presente che il futuro. Con venature orrorifiche che restano latenti decidono di non raccontare una catastrofe planetaria come molti altri colleghi hanno fatto prima di loro, soprattutto oltreoceano, a favore di una visione circoscritta e ridimensionata a una sparuta comunità agricola belga. Qui il processo di regressione del comportamento umano sovverte le regole di convivenza civile e morale, riportando gli abitanti alla barbarica lotta per la sopravvivenza animata di saccheggi, violenze, follia, dissoluzione, disfacimento e disgregazione. Spettatore di questo “spettacolo” di morte e devastazione è la natura, che si limita a osservare inerme il lento consumarsi della specie umana, a sua volta costretta a osservare il “mondo” animale e vegetale staccare la spina.
La sceneggiatura stratificata e solida permette a una piccola idea di trasferirsi in un film geniale. Nella contaminazione dei generi trova spazio, tra dramma e fantascienza, anche un pizzico di grottesco che regala inaspettati sorrisi prima che l’orrore si impossessi definitivamente dell’epilogo. Lo script gioca sull’attesa e sull’inevitabile, dilatando i tempi e cristallizzando la suspense. Alle parole si sostituiscono i silenzi e la voce della natura, così come nella messa in quadro il puro manierismo cede il testimone a una regia che predilige la contemplazione, la raffigurazione quasi pittorica, la cristallizzazione, la geometria, il gioco affascinante delle prospettive e le chirurgiche linee disegnate nello spazio dalla macchina da presa quando abbandona la fissità per lasciarsi andare, solo quando è necessario, a fluidi movimenti di macchina.
Francesco Del Grosso