L’uomo del mese
Tra i compiti di un festival e di un team di programmazione ci dovrebbe essere quello di andare alla ricerca di opere realizzate da giovani talenti, magari all’esordio, pescandole anche nel sottobosco del cinema indie e al di fuori dei canali ufficiali. Ed è esattamente ciò che il comitato e la direzione artistica del MiX – Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e Cultura Queer hanno fatto inserendo nel concorso della 39esima edizione della kermesse meneghina un film come Cherub. Trattasi dell’opera prima di Devin Shears, cineasta canadese del quale siamo sicuri sentiremo parlare da qui ai prossimi anni, approdata in quel di Milano in anteprima italiana dopo un fortunato tour alle diverse latitudini iniziato lo scorso anno al Vancouver International Film Festival, risultando non a caso una delle più interessanti e sorprendenti dell’intera selezione. Pietra grezza ma di grandissimo valore per i motivi che andremo più avanti a illustrare, Cherub è stata realizzata con un budget di soli 10.000 dollari, come tesi di laurea magistrale di Shears nel programma di studi cinematografici presso la York University. Le ridotte disponibilità economiche e tecniche non hanno però impedito al regista di Saint John’s di scrivere, confezionare e portare sullo schermo un film di discreta fattura.
Siamo in quel di Toronto. Qui Harvey conduce una vita silenziosa e monotona: giornate trascorse in laboratorio, le visite al padre malato in ospedale e timide fantasie su una collega con cui però non riesce nemmeno a parlare. Timido, solo e con un corpo grasso, sembra destinato a rimanere invisibile. Finché, quasi per caso, entra in un sexy shop e scopre un magazine gay dedicato agli uomini corpulenti e così decide di inviare una propria foto al concorso “Cherub of the Month”. Da quel gesto così inatteso ne esce però una sorprendente riscoperta di sé, del desiderio di essere visto e una nuova possibilità di accettarsi e farsi accettare.
Quella di Shears è una delicata commedia visiva che trasforma silenzi e immagini in un racconto di desiderio e rinascita. In Cherub, infatti, l’autore decide di fare a meno dei dialoghi per affidarsi esclusivamente al potere comunicativo ed evocativo dei suoni e della performance fisica del protagonista, qui interpretato da un sorprendente Benjamin Turnbull. Al resto ci pensa una scrittura in punta di matita che disegna, mescolando reale e onirico, le traiettorie di una narrazione semplice ed efficace, impreziosita da uno humour sottile e intelligentissimo che riporta la mente alla comicità sopraffina del cinema di Jacques Tati. A fare la differenza in Cherub sono dunque le idee e tutto ciò che il regista mette in pratica per dare ad esse forma e sostanza, compresa la scelta di dare centralità al personaggio principale incorniciandone le vicissitudini in 4:3 a nostro avviso assolutamente funzionale. Quadri, questi, che si materializzano con un retrogusto vintage che il direttore della fotografia Nick Tiringer ha ottenuto lavorando sapientemente con la grana e una paletta di colori desaturati.
Francesco Del Grosso