Donne a mano armata
Dopo avere chiuso il 40° Namur International Francophone Film Festival a Le gang des Amazones (Unsubmissives) è stato affidato il compito di inaugurare la competizione della 35esima edizione del Noir in Festival, laddove l’ultima fatica dietro la macchina da presa di Mélissa Drigeard è stata presentata in concorso a un mese circa dall’uscita nelle sale francesi lo scorso 12 novembre.
Chi come noi ha avuto modo in passato di vedere le precedenti opere dell’attrice, regista e sceneggiatrice parigina è rimasto sorpreso dalla presenza della pellicola in questione nella line-up della kermesse milanese. Le gang des Amazones rappresenta infatti un unicum nella filmografia della Drigeard, il cui lavoro finora si era concentrato esclusivamente su commedie corali sull’amore, l’amicizia e la famiglia, tra cui vale la pena ricordare Hawaii e Tout nous sourit. Il quarto lungometraggio, del quale firma anche la sceneggiatura insieme a Vincent Juillet, in tal senso per lei segna un deciso cambio di rotta per quanto concerne il tono. Resta però da scoprire se si tratta di una parentesi o di una vera e propria svolta. Pur mantenendo l’impianto corale, la cineasta transalpina ha stavolta deciso di utilizzare dei colori diversi della tavolozza del genere, ossia quelli del caper movie prima e del legal movie poi. Lo ha fatto per portare sullo schermo una storia realmente accaduta nei primi anni Novanta nel sud della Francia che ha come protagoniste Katy, Hélène, Laurence e Carole. Amiche strette sin dall’infanzia e all’epoca dei fatti ventenni, si trovano ad affrontare le difficoltà di una piccola e soleggiata città natale che offre opportunità limitate. Nonostante le circostanze sfavorevoli, hanno mantenuto uno spirito resistente e allegro, sostenendosi a vicenda nei momenti positivi e negativi della vita. Le loro vite, però, hanno una svolta drammatica quando Hélène, madre single di tre figli, riceve un’improvvisa notifica: i suoi assegni di assistenza sociale sono stati ridotti. In questo modo, mantenere la propria famiglia diventa un’impresa fuori dalla sua portata. Sopraffatte da un senso di ingiustizia, impotenti di fronte alle disuguaglianze sociali, le cinque donne sono attratte dal feroce desiderio di cambiare il corso della loro esistenza. E prendono la sconvolgente decisione di rapinare una banca. Presto, commetteranno una serie di colpi sempre più audaci.
Da questa incredibile vicenda, alla quale gli autori si sono ispirati dopo esserne venuti a conoscenza tramite l’ascolto del podcast di Fabrice Drouelle, Affaire Sensible, ha preso forma e sostanza un film che come accennato in precedenza sfrutta gli stilemi sia del classico film sulle rapine che di quello giudiziario, ma conservando come base il dramma sociale di cinque giovani donne segnate da una precarietà aggravata dalla violenza sistemica, dal sessismo e dalla marginalità. Regole d’ingaggio, queste, piuttosto rischiose che in altre occasioni e mani avrebbero comportato delle serie complicazioni, a cominciare dalla spettacolarizzazione e l’esaltazione dell’azione criminale. Le gang des Amazones al contrario ha il merito di riuscire a trovare la giusta distanza per raccontare e mettere in scena la sottilissima linea che separa il crimine dall’ingiustizia sociale. Per evitare di essere inghiottito da quelle stesse sabbie mobili nelle quali troppo spesso i romanzi criminali e le biografie di celeberrimi malviventi sono scivolati, la Drigeard e il suo co-sceneggiatore hanno fatto in modo di non trasformare le protagoniste in eroine assolute, diversamente da quanto accaduto invece con Brave ragazze di Michela Andreozzi. In quel caso, seppur con i toni della commedia, la collega non era riuscita a dribblare l’ostacolo, capacità che invece va attribuita al film della regista francese e che le ha permesso di non finire nella trappola.
L’approccio e l’avere saputo trovare la giusta distanza ha permesso all’autrice di trattare anche il tema della sorellanza in maniera inusuale. Il ché è un altro punto a favore di un’opera che ha potuto contare pure sul contributo davanti la macchina da presa di cinque interpreti di grandissimo talento, che hanno a loro volta dato ai rispettivi personaggi il giusto livello di intensità, che ha nella scena del riconoscimento in carcere il picco più alto di temperatura emotiva. Anche se a funzionare e a rappresentare un valore aggiunto per il film è la performance corale, una segnalazione particolare ci sentiamo di farla per le interpretazioni di Lyna Khoudri e di Izïa Higelin. A incidere negativamente e a raffreddare la temperatura ci pensa purtroppo la durata che dilata eccessivamente la timeline, andando oltre le due ore e le reali esigenze narrative e drammaturgiche della storia.
Francesco Del Grosso









