Non è più Ibsen
L’opera del grande drammaturgo scandinavo Henrik Ibsen datata 1891, Hedda Gabler, possiede a tutti i livelli una modernità e una profondità introspettiva tali da renderne auspicabili nuove parafrasi, interpretazioni libere, adattamenti anche piuttosto arditi. Del resto ci siamo già imbattuti sul palco con rappresentazioni oltremodo valide, stimolanti, talora spiazzanti e innovative nella messa in scena poiché orientate verso un teatro di ricerca. Parimenti possiamo osservare che più di un autore in passato ha saputo portare sul grande schermo “classici” della letteratura teatrale traslando, con disinvoltura, l’essenza delle opere in epoche e contesti sociali o geografici differenti, così da ottenere effetti vertiginosi sul piano estetico, artistico. Gli esempi con un gigante come William Shakespeare quasi si sprecano. Dal magnifico Ran (1985) di Akira Kurosawa al Riccardo III diretto nel 1995 da Ricard Loncraine, con Ian McKellen sublime protagonista.
Tutto questo anche per chiarire che di fronte a certe operazioni non si parte certo prevenuti. Dall’insieme delle nostre considerazioni, difatti, qualcuno potrebbe essersi fatto l’idea che pure Hedda di Nia DaCosta, lungometraggio passato proprio in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma (sezione Grand Public), ci abbia recato qualche soddisfazione. Purtroppo non è così. Anzi, l’esatto contrario. Questa produzione americana invece di inseguire il perturbante insito in Hedda Gabler e nelle figure a lei vicine preferisce prendere la via più facile, comoda e modaiola, allestendo scenografie sfarzose (l’ambientazione diventa infatti una ricca dimora inglese degli anni’50 del secolo scorso, con un effetto volendo “alla Downton Abbey”) per spostare poi le aspre schermaglie tra la protagonista e gli ospiti della grande festa su un terreno decisamente più eccessivo e pruriginoso.
La parossistica sessualizzazione di qualsiasi confronto tra i personaggi, con esiti a tratti davvero kitsch, schiaccia le psicologie e le motivazioni personali, che si tratti di frustrazioni professionali o crisi di coppia, ponendo ogni cosa su un piano più vicino alla soap opera che alla grande letteratura teatrale o anche solo a un cinema sincero, di qualità. Lo stesso ascendente “woke” s’avverte in modo pacchiano, forzato, a partire dalla scelta della protagonista: assai superficiale ed effimera risulta infatti l’interpretazione di Tessa Thompson, donna dal volto magnetico, la cui carnagione scura pare però prestarsi da un po’ di tempo a operazioni più ideologiche che artistiche, laddove la vediamo un giorno nei panni della Valchiria (ma in Thor Ragnarok la riconfigurazione del personaggio era invero più divertente) e il successivo in quelli che almeno nel testo originario erano di una sofisticata, tormentata, algida donna scandinava. Va da sé che più che tendere all’esplorazione di uno sfaccettato mondo interiore, la sua presenza in scena rappresenti il viatico giusto per spostare tutto l’apparato diegetico verso tensioni razziali o molto (troppo) vagamente di classe, sessualità sfrenata, “female power” e immancabili relazioni lesbiche. Eppure, ciò che né deriva non è tanto una centrata provocazione o più semplicemente un’attualizzazione del dramma di Ibsen, quanto piuttosto una sua banalizzazione, un suo involgarimento, che invece di far leva su determinati archetipi ne disperde il potenziale in frivolezze d’ogni sorta.
Così il risultato più che apparire scandaloso finisce per essere ripetitivo, noioso, sciattamente in linea coi tempi. Nonostante poi il notevole sfarzo produttivo la stessa parafrasi del linguaggio teatrale mostra più volte la corda. Si citano, ad esempio elementi ben noti della pièce di Ibsen, come le pistole che Hedda Gabler ha ereditato dal padre, ma pure lì la valenza iconica dell’oggetto viene piegata a necessità narrative più infime o a qualche feticistica annotazione, come quando la protagonista sembra incombere con l’arma da fuoco da lontano, dalla cima della propria magione, su uno dei propri ospiti. Peccato però che non sia un western o un racconto “pulp”. Le stesse relazioni spaziali tra gli interpreti sembrano infatti ondeggiare tra anonimi campi lunghi e un’intimità forzata, esibita, esplicitando in modo pacchiano i rapporti di forza senza al contempo riprodurre quei sottintesi e quelle energie represse che confervano invece spessore all’opera del drammaturgo norvegese.
Stefano Coccia