Storia e mito in un toccante ed originale racconto sulla diaspora iraniana
In concorso alla Biennale di Venezia 2025 alle Giornate degli Autori, Gli uccelli del monte Qaf (titolo originale: Past Future Continuous) è un originale e toccante documentario diretto da Morteza Ahmadvand e Firouzeh Khosrovani, incentrato su Maryam, una donna iraniana fuggita dal suo Paese in seguito alla rivoluzione del 1979, che osserva da lontano la vita dei suoi genitori grazie a moderne telecamere di sorveglianza che ha fatto installare nell’abitazione avita.
Con gli occhi del Grande Fratello, Maryam intreccia passato e presente tra ricordi e ausilio della tecnologia; riviviamo con lei i giocosi giorni dell’infanzia e la necessaria rocambolesca fuga in Occidente della giovinezza, ascoltiamo i racconti del cambiamento sostanziale da Persia ad Iran (sebbene il nome ufficiale fosse già mutato da tempo) con la rivoluzione islamica che cambiò il suo mondo, osserviamo come uccelli in gabbia la madre e il padre di Maryam in una casa che ha perso la musica gioiosa di quando erano insieme. Già il titolo originale, Past Future Continuous, tempo verbale inglese non standard, si riferisce a un “futuro nel passato”, un modo per esprimere un’azione futura vista dal passato, che qui si traduce in un tempo ininterrotto, dove passato, presente e futuro si fondono senza soluzione di continuità. Il titolo italiano, più suggestivo, richiama invece il leggendario Monte Qaf della mitologia mediorientale, immaginaria catena montuosa di smeraldo ai confini del mondo, che rappresenta il limite tra il mondo umano e il regno divino, sulla cui cima si trova la dimora della Fenice (o Simurgh); gli uccelli del monte Qaf, come la stessa Maryam, simboleggiano l’allontanamento dalla terra natia, l’emigrazione.
In perfetto equilibrio tra finzione e documentario, Gli Uccelli del Monte Qaf racconta in modo originale e toccante la diaspora iraniana, attraverso la voce di chi è lontano e gli occhi delle telecamere fisse su chi è rimasto; una particolare forma di split screen segmenta la casa nelle varie inquadrature riprese dalle telecamere di sorveglianza poste nelle varie stanze, dissezionando la vita domestica negli spazi del padre e della madre, osservando dall’alto salotto, cucina, camere da letto, sino al giardino interno, che più di tutto mostra l’inesorabile passare degli anni. Una telecamera sul cancello che porta nel vicolo, poi, rivela scorci di un esterno che appare sempre minaccioso, in contrasto con l’apparente serenità del nido familiare, quella casa progettata dal padre e costruita in tempo per la nascita di Maryam, che ha sentito le risate dei tempi felici ed ora restituisce la solitudine di una famiglia spezzata.
L’esilio forzato, la nostalgia di casa, gli affetti lontani che la moderna tecnologia apparentemente avvicina, acuendo invece la lontananza nel cuore, il dolore per un mondo perduto ed irraggiungibile. Quella tecnologia che basta un click per spegnerla, lasciando Maryam al buio sul destino dei suoi genitori e della casa, mentre i telegiornali raccontano di guerre e continui attacchi su Teheran; e attraverso quel buio, quell’angoscia nella voce della giovane donna, siamo anche noi lì, in attesa che torni la luce e disveli il destino di quel padre e quella madre che simboleggiano tutti i padri e tutte le madri che hanno visto i figli partire per non tornare più.
Testimone silenzioso ed inanimato, il giardino interno con la sua piscina, che ha sentito Maryam e i suoi piccoli amici giocare serenamente al tempo dell’infanzia, mostra, immagine dopo immagine, l’ineluttabile passare degli anni ed il declino di un mondo felice sotto lo strazio indicibile dello stato continuo di guerra, acuendo ancor più la pena di chi, come gli uccelli del monte Qaf, è emigrato lontano per salvarsi ma porta la sua terra natia nel cuore.
Michela Aloisi