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Zombie contro Zombie

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VOTO: 7

Buona la prima!

Cosa può esserci dietro il lavoro di una sgangherata e piuttosto maldestra troupe cinematografica? Quanta fatica, quanti imprevisti, quanti aneddoti inimmaginabili ci sarebbero da raccontare, quando si vuol parlare di cosa accade realmente dietro la macchina da presa? Per quante bizzarre avventure possano celarsi dietro la lavorazione di un lungometraggio, mai nessuna riuscirà a reggere il confronto con ciò che è accaduto sul set di One Cut of the Dead, prodotto pensato per una diretta televisiva in cui, tramite un unico piano sequenza, bisogna raccontare un attacco di zombie. E questo, dunque, è ciò che viene proposto alla troupe cinematografica capitanata da un maldestro regista nel lungometraggio Zombie contro Zombie (il cui titolo originale è il medesimo del film che i protagonisti si accingono a girare), diretto dal cineasta giapponese Ueda Shinichiro, presentato in anteprima alla ventesima edizione del Far East Film Festival (dove si è aggiudicato il Gelso d’Argento), in uscita nelle sale come evento speciale grazie alla Tucker Film e vero e proprio caso cinematografico in patria, dove ha riscosso un successo pari addirittura a quanto era stato per The Blair Witch Project (1999).

Vanta una struttura piuttosto singolare, questo fortunato lavoro di Ueda Shinichiro. La presente sceneggiatura, infatti, azzarda (con buoni risultati finali) una struttura divisa in tre parti, in cui, inizialmente, vediamo il prodotto completo, così com’è andato in onda, nella seconda parte il flashback riguardante la preparazione alle riprese e, infine, nella terza, vediamo ciò che accade durante le riprese stesse e, dunque, durante la realizzazione del complesso piano sequenza. Il tutto, condito da una ricca sfilza di gag e riusciti espedienti comici, in una sorta di Effetto Notte nipponico dai toni scanzonati della commedia.
Un film metacinematografico nella sua forma più pura, dunque, questo Zombie contro Zombie. Un lavoro che, proprio per il tema trattato, sta a ricordare, per certi versi, il bellissimo Why Don’t You Play in Hell? di Sion Sono (2013), sebbene Ueda Shinichiro abbia ancora molta strada da fare rispetto al suo connazionale. Eppure, malgrado la presenza di non poche pecche all’interno dello stesso script, il lungometraggio complessivamente funziona, grazie a un lavoro di regia attento e minuzioso che, inquadratura dopo inquadratura, riesce a inventarsi sempre nuove e bizzarre idee per far quadrare allo spettatore gli evidenti errori presenti nel lavoro realizzato dalla singolare troupe e mostratoci durante la prima parte del film. Poco importa, dunque, se la parte centrale lascia complessivamente a desiderare, sia per quanto riguarda i ritmi, che per quanto riguarda la caratterizzazione stessa dei personaggi, con i quali, presi almeno singolarmente, lo spettatore empatizza poco, almeno fino alla scoppiettante terza parte del lungometraggio. Questo importante lavoro di Ueda Shinichiro ha dalla sua un’idea vincente che ha fatto sì che l’intero prodotto risaltasse immediatamente agli onori della cronaca, dimostrando, oltretutto, anche un forte, fortissimo amore per la Settima Arte da parte del regista stesso, il quale, in chiusura, abbandona per un istante i toni divertiti e scherzosi per mostrarci – con riusciti primi piani – tutti i singoli membri della troupe finalmente sorridenti e sollevati, felici di aver realizzato qualcosa per il loro amato Cinema. E, a tal proposito, il riuscito dolly finale – analogamente a quanto accade nello stesso Effetto Notte – che piano piano si allontana dalla troupe in festa, ci presenta l’intero contesto come una sorta di isola felice, di cui solo chi riesce a capirne la vera essenza, può apprezzare fino in fondo ogni suo singolo aspetto.

Marina Pavido

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