Far East 2019: i morti viventi dilagano nel cinema coreano!
La piaga ha cominciato da tempo a diffondersi. E negli ultimi anni è diventata addirittura inarrestabile. Ebbene sì, il cinema coreano di genere (così spesso vicino a coltivare non disprezzabili ambizioni di natura socio-politica) sta dimostrando un feeling crescente con il prolifico filone dei morti viventi. Negli ultimi anni gli zombi movies di successo non sono stati certo pochi, il che deve aver influenzato ora altri autori. Del resto in almeno un paio di casi lo stato di “cult movie” è stato parimenti raggiunto: il riferimento è ovviamente al portentoso dittico firmato da Sang-ho Yeon, cui dobbiamo l’adrenalinico Train to Busan e il prequel animato Seoul Station, datati entrambi 2016. Pare inoltre che l’avventura non debba fermarsi qui, visto che Train to Busan 2 è annunciato già in pre-produzione!
Sono treni che partono e non si sa mai se arriveranno a destinazione. O come ci arriveranno. Già un Maestro dell’odierno cinema sudcoreano come Bong Joon-ho aveva immaginato in Snowpiercer la sua folle corsa in treno, in una cornice post-apocalittica, quale specchio deformante della società coreana attuale e con una feroce lotta di classe in atto tra un vagone e l’altro, nella difficile risalita dalla coda del convoglio verso le più confortevoli postazioni dei grandi burattinai asserragliati in prossimità della locomotiva. Un “redde rationem” pressoché inevitabile. E seppur in forma più basica, ruvida, anche il treno diretto a Busan col suo carico di morti viventi e di gente intenzionata in qualche modo a sopravvivere, grazie alla regia solida e a tratti ispirata di Sang-ho Yeon, si faceva carico di altri significati, proponendo di determinati equilibri (o squilibri) sociali una lettura oltremodo feroce. Dei meriti (anche a livello di puro entertainment) di Train to Busan, che aveva rappresentato una delle sorprese più grandi a Cannes 2016, ci aveva parlato a suo tempo Francesco Del Grosso: “Il motivo di un simile successo non è tanto difficile da spiegare, perché alla base della sua ricetta non vi è alcun ingrediente segreto, o meglio nulla che non si possa individuare a una prima e fugace lettura analitica del progetto. È sufficiente la fruizione per rimanerne conquistati, poiché nelle quasi due ore di visione il film materializza sul grande schermo uno show orrorifico di altissimo livello, fatto di ritmo sostenuto ed effetti speciali di forte impatto, capace di alternare agli stilemi e ai caratteri tipici dello zombie-movie, tutto sangue e anfratti, una travolgente dose di humour nero, con situazioni divertenti e battute sarcastiche che si fanno largo nella classica macelleria. Ed è su questi due binari che si sviluppa il plot di Train to Busan, decisamente esile e basilare nella sua costruzione, ma efficacissimo nella successione delle dinamiche e sorprendente nel modo in cui queste vengono traslate sullo schermo. Ci troviamo alle prese con l’ennesimo virus non identificato che si diffonde velocemente nel Paese, che in questo caso è la Corea del Sud, dove il Governo è costretto a dichiarare la legge marziale. Le persone che si trovano su un treno per Busan, città che è riuscita ad arginare l’epidemia con successo, devono combattere per la propria sopravvivenza. Da Seoul a Busan sono 453 km: l’unico modo per rimanere vivi è salire su quel treno. […] L’intrattenimento è ovviamente l’obiettivo primario da raggiungere, ma il messaggio (non la morale) della quale la pellicola si è fatta carico nell’arco della timeline non è un fattore secondario da tralasciare assolutamente. Come accade spesso, il cinema di genere e gli autori che nei decenni ne hanno saputo sfruttare l’enorme potenziale intrinseco, si è fatto strumento di veicolazione di tematiche dal peso specifico non indifferente. In tal senso, restringendo la cerchia allo zombie-movie, pensate a quanto argomentato da Romero nella sua celeberrima saga dedicata ai morti viventi ad esempio in tema di politica o capitalismo. Pur mantenendo le giuste distanze del caso dalle pietre miliari romeriane, anche quello del collega asiatico è a suo modo un film politico, anche se c’è chi ne vede solamente l’aspetto commerciale, nelle cui arterie drammaturgiche e narrative scorre un chiaro e per niente velato attacco al capitalismo imperante che ha ormai fagocitato la Società odierna, non solo quella sudcoreana che fa da sfondo al film.”
Come si accennava in apertura, anche la corsa per la sopravvivenza immaginata da Sang-ho Yeon è proseguita cinematograficamente con soste che hanno saputo offrire maggior respiro a tale epopea: difatti quel treno maledetto ha poi fatto tappa a Trieste, dove Science + Fiction pensò bene di rendere più gustoso l’appuntamento abbinando alla proiezione di Train to Busan quella del prequel animato, Seoul Station. L’intera operazione ha svelato così tutte le sue potenzialità, considerando che Sang-ho Yeon proprio come regista di animazione (cfr. The King of Pigs – 2011 – e The Fake – 2013) si era affermato a livello internazionale.
Questo immediato “ritorno alle origini” della propria vena creativa ha coinciso, tra l’altro, con una proficua integrazione e persino con il potenziamento delle già valide tracce esplorate in Train to Busan. Con un occhio rivolto in maniera ancora più energica alla poetica di Romero, Seoul Station racconta la lunga notte in cui, portata da un vecchio malmesso, l’infezione aveva cominciato a dilagare nella stazione ferroviaria di Seoul e nelle zone adiacenti. L’azione precede di qualche ora, quindi, la partenza di quel convoglio di morte per Busan, il cui viaggio viene rappresentato con dovizia di (truculenti) particolari nel lungometraggio live-action. Ciò che colpisce in primis del lungometraggio animato è la coralità delle storie: Sang-ho Yeon ha saputo affrescare diversi personaggi emblematici, rappresentativi di classi sociali e condizioni esistenziali diverse, facendone incrociare i destini con una certa maestria narrativa. Ma non è soltanto questo. Il passaggio dal microcosmo individuale a istanze collettive delicate e complesse è qui persino più deflagrante. Ci sono svariate scene in cui il cinismo omicida delle autorità sudcoreane, fatto uscire allo scoperto dal dilagare del contagio, si manifesta in modo crudele spostando gradualmente l’obiettivo dall’apocalisse zombi in sé all’eco profonda di una realtà poco o nulla solidale, militarizzata, iper-competitiva e fondamentalmente priva di pietas.
Quell’assenza di umanità descritta nell’oggi (o nell’immediato futuro) può essere messa ora o confronto col suo retaggio atavico, grazie a a uno dei due zombie movies “Made in Korea” apprezzati durante questa ventunesima edizione del Far East Film Festival. Per inciso quello che ci ha appassionato di più, quantomeno per l’originalità della ricetta e la ricercatezza della messa in scena: Rampant di Kim Sung-hoon.
Non capita così spesso di pescare un horror in costume, ambientato interamente nei secoli passati. Ma a volte è davvero un bel vedere: il primo esempio che ci viene in mente è lo sfiziosissimo, ancorché solenne Sauna del finnico AJ Annila, sfrontata trasposizione degli stilemi tipici del J-Horror in un lembo acquitrinoso ai confini tra le terre dello Zar e i territori scandinavi, laddove gli orrori della guerra paiono destinati a prendere forma di tetra maledizione, al termine del conflitto russo-svedese scatenatosi nel corso del XVI secolo. In Rampant, ambientato lungo la penisola coreana nella remota epoca Joseon, il prologo stesso rende omaggio al classico filone del contagio, attraverso l’arrivo nel paese di una nave col suo mortifero carico di corpi infetti. Da lì in poi Kim Sung-hoon è riuscito nel piccolo miracolo di dar vita a un avvincente crossover, in cui l’impronta forte dello zombie movie si mescola (persino elegantemente) con la prassi cinematografica del wuxia, del cappa e spada in salsa orientale fatto di sfide tra maestri, intrighi di corte, cruente successioni al trono, fiere ribellioni verso potentati stranieri le cui pressioni (provenienti stavolta dalla Cina) rischiano inevitabilmente di annichilire il popolo. E l’apologo sul potere che ne esce fuori, perfettamente fuso con un livello di intrattenimento davvero ottimo (rafforzato inoltre dalla brillante, articolata impalcatura narrativa), risulta alla fine tutt’altro che banale.
Come a saggiare le infinite possibilità del genere, il film cui vorremmo fare cenno in chiusura (ma che riprenderemo di sicuro in seguito, essendo destinato a diventare un piccolo cult), è The Odd Family: Zombie on Sale di Lee Min-jae. Ciò che era riuscito malissimo agli americani, ovvero raffigurare improbabili amori adolescenziali tra teenager umani e altri trasformati in zombi (vedi il pessimo, finanche noioso Warm Bodies del 2013, diretto da Jonathan Levine e basato sull’omonimo romanzo di Isaac Marion), rappresenta qui uno dei tanti spunti di una “zombie comedy” (diramazione “alleggerita” del così prolifico filone horror, che pare avere in serbo tante altre sorprese… almeno rispetto a quell’altro versante, più serio, spremuto negli anni quasi fino all’osso) dal ritmo indiavolato, ricca di soluzioni grottesche, di elementi pop e di colpi di scena a ripetizione. Non staremo qui ad elencarveli, preferendo mettere i puntini di sospensione su questo mini-saggio dedicato al proliferare di (validissimi) film sui morti viventi in Corea del Sud (sempre in attesa che anche la Corea del Nord voglia darsi da fare, considerando che lo Juche è di suo un’ideologia “zombificata”: ironica frecciatina, la nostra, che a quelle latitudini non sarebbe molto gradita), con una certezza però che ci sentiamo di condividere: del divertente, picaresco e irriverente The Odd Family: Zombie on Sale sentiremo ancora parlare. L’accoglienza così calorosa del fomentatissimo pubblico di Udine costituisce già a riguardo una solida garanzia.
Stefano Coccia