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Zerzura

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VOTO: 5.5

Chi trova un fratello, trova un tesoro

Due anni fa con Akounak tedalat taha tazoughai (letteralmente Pioggia blu con un po’ di rosso), remake post-coloniale ambientato nel Sahel del “Purple Rain” di Prince, nonché primo lungometraggio girato in lingua Tuareg, Christopher Kirkley lasciò un segno nella competizione della 52esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema, senza però portare a casa nessun riconoscimento.
Ora il cineasta statunitense ci riprova portando sugli schermi della 54edizione della kermesse pesarese la sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo Zerzura che, purtroppo, pur avendo al suo interno note positive, non riesce a dare una compattezza al tutto. Ciò che si avverte sin dalla fruizione è uno scollamento dei singoli elementi che vanno a comporre il mosaico audio-visivo. Quanto basta per mettere chiaramente in evidenza tanto i punti di forza quanto quelli deboli, con la bilancia che finisce con i pendere dalla parte di quest’ultimi. Di fatto, le componenti di pregio e meritevoli di attenzione come ad esempio l’approccio visivo, capace di generare una serie di immagini d’impatto che derivano dalle conoscenze dell’hardware e dall’indubbio gusto per la composizione dell’inquadratura.
Partendo dal mito dell’esistenza nel deserto di una città perduta, il film costruisce un viaggio mitico attraverso il Sahara insieme al protagonista, il chitarrista Ahmoudou Madassane, partito in cerca del fratello misteriosamente scomparso mentre era in cerca di un’antica città che si favoleggia ricca di tesori. Lungo il cammino incontra nomadi, jinn, banditi, cercatori d’oro e migranti. Quella che si troverà ad affrontare l’uomo sarà una vera e propria odissea umana, che metterà a dura prova i suoi limiti fisici e psicologici, con le sterminate distese desertiche di sabbia, terra e pietre, a rappresentare il primo grande ostacolo da fronteggiare per il ritrovare il fratello e di conseguenza la leggendaria città che pare esserselo inghiottito, che non può non riportare alla mente il mito di El Dorado.
Il cineasta statunitense firma un road movie che echeggia e attinge a suo modo allo storico filone del cinema d’avventura, con il deserto e le sue spietate regole non scritte di sopravvivenza a dettare le cosiddette regole del gioco. Per farlo, l’autore sceglie un approccio personale e riconoscibile per tutti coloro che hanno avuto modo di vedere il suo lavoro precedente e che conoscono il suo modo di pensare e concepire la Settima Arte, richiamando modus operandi ed elementi drammaturgici, narrativi, stilistici e sonori, già presenti nell’esordio del 2016, qui ulteriormente maturati, ma suo malgrado messi a disposizione di un’opera che ha nelle debolezze strutturali e in alcuni elementi di messa in scena il tallone d’Achille. Dalla fruizione si avverte una certa ridondanza, che si manifesta attraverso una successione di scene che alla lunga non arricchiscono la narrazione, piuttosto la appesantiscono di passaggi fotocopia rendendola meno fluida. L’onnipresenza della colonna sonora, dove a spiccare come in Akounak tedalat taha tazoughai non possono che essere le chitarre elettroniche, da una parte contribuisce alla causa, dall’altra aumenta la sensazione generale di ripetitività ciclica di alcune situazioni.
Tuttavia, nonostante le suddette fragilità, che non possono non pesare nell’economia del giudizio finale, in Zerzura non si può non mettere in evidenza alcuni ingredienti positivi che salvano almeno in parte il progetto dal naufragio tra le sabbie del deserto che fa da cornice al film, a cominciare dal grado di difficoltà insito nel DNA del progetto e che traspare dalla visione. Scritta, prodotta e filmata tutta in esterni, con una troupe e un cast Tuareg, con scene riprese in un unico ciak e a volte completamente improvvisate, l’opera seconda di Kirkley, al di là della presenza nel menù di personalizzazioni, attinge a piene mani dal cinema di Jodorowsky e Jean Rouch, ma anche dal Flaherty di Nanuk l’esquimese o L’uomo di Aran. Questo per dire come in Zerzura il documentario antropologico e la finzione convivono, verità e sogno si incontrano, costruzione e improvvisazione vanno di pari passo, realismo e immaginifico si cedono il testimone per poi mescolarsi senza soluzione di continuità nella seconda parte. Peccato che tutto questo magma non venga utilizzato e dosato nella giusta misura. Di conseguenza, l’amaro in bocca per quello che poteva essere e invece non è stato, si fa sentire ancora di più.

Francesco Del Grosso

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