Natura morta libanese
Cineasta estremo, Christophe Karabache ama proporre opere con una loro impronta fortemente sperimentale, ricamata talora a ridosso dei generi. Vedi ad esempio Beirut Kamikaze (2010) o il più recente Kalashnikov Society (2022).
Nel suo ultimissimo Zaman Dark, in concorso al Ravenna Nightmare 2023, questo regista libanese formatosi artisticamente in Francia pare aver preso gli umori più foschi della propria terra d’origine, per farli poi precipitare in un oggetto filmico tanto caustico quanto rapsodico, a tratti, per non dire proprio ai limiti della schizofrenia narrativa.
L’ambito entro cui si colloca la poetica del film può essere considerato a buon diritto il perturbante cinematografico. Le prime disturbanti inquadrature non a caso ritraggono frutta marcia e qualche altra sostanza biologica in decomposizione, assieme a pochi oggetti luridi, sporchi: praticamente una natura morta fiamminga, ridotta a iniziale scenografia e contrappunto di un horror sperimentale, fieramente underground, la cui forma cangiante alterna psichedelia pura e scene alquanto disgustose, raccapriccianti.
Luci intermittenti e assai fastidiose accompagnano infatti lo svolgimento del primo delitto: il rapimento, con successivo sgozzamento, di un giovane aitante e riccioluto, da parte della laida coppia protagonista. Trattasi di Khattar e Anaïs, chimici disoccupati che in un Libano devastato dalla crisi economica hanno elaborato strategie decisamente poco convenzionali, per tirare avanti: ad esempio il cannibalismo!
Dipanandosi con un andamento sempre più grottesco, allucinatorio, lo sconnesso plot di Zaman Dark ci mostrerà la strana coppia alle prese prima con una sguaiata, violenta banda di teppisti, poi con altre vittime innocenti, senza contare naturalmente gli sporadici messaggi fatti pervenire allo spietato, lunatico Khattar da quel misterioso mandante, coinvolto al pari dei due in un terrificante, cinico e a senz’altro lucroso traffico di carne umana e armi iper-tecnologiche.
Ecco, sullo sfondo pare di cogliere il clima plumbeo della Beirut sconvolta dalla terrificante esplosione al porto, nell’agosto del 2020. Limite forte del lungometraggio è però, a nostro avviso, proprio quel seminare inquietudini relative a un assetto socio-politico devastato, disumanizzato, corredando però il tutto di riferimenti e allusioni troppo vacui, scheletrici, perché tale cornice risulti poi adeguatamente sostanziata. Resta comunque un senso di orrore diffuso, che, anche per via di determinate suggestioni a livello formale, non lascia certo lo spettatore più sensibile del tutto estraneo a tale atmosfera.
Stefano Coccia