Ma tutto questo Zaineb non lo sa
Tra la forma del documentario e quella della fiction ci sono tanti punti intermedi, che bene o male sono stati percorsi da vari filmmaker. Un approccio interessante in questo senso è fornito da Zaineb n’aime pas la neige della regista tunisina Kaouther Ben Hania, presentato nel Concorso Lungometraggi Finestre sul Mondo del 27° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina.
La piccola Zaineb è seguita per sei anni della sua giovane vita, dai 9 ai 15 anni: una vita tumultuosa dove sperimenta la morte prematura del padre, la madre che si risposa, la migrazione, difficile, tra Tunisia e Canada. Sappiamo che il lavoro della filmmaker è consistito nel riprendere e nel catturare istanti dell’esistenza di Zaineb, che esiste realmente, con la quale è entrata in forte empatia anche per una relazione di parentela che le lega: la regista è cugina di sua madre. Ma il confine tra questo e un cinema di fiction molto aderente alla realtà, un docu-fiction. pare alquanto labile. Sono due percorsi irti di spine, nel primo caso il regista e la troupe devono riuscire a risultare invisibili rispetto ai personaggi che filmano, per non influenzarli. Nel secondo caso si deve inseguire una spontaneità della recitazione, magari da parte di non professionisti, attori presi dalla strada, e quindi ancora più difficile.
In Zaineb n’aime pas la neige alcuni frammenti rivelano l’approccio da documentario, la realtà. A volte i personaggi si lasciano scappare degli sguardi in camera, a volte si vede l’ombra della telecamera, e verso la fine Zaineb si rivolge direttamente alla regista. Se il cinema è come la vita una volta che siano state tolte le parti inutili, come affermava Hitchcock, qui abbiamo un grosso lavoro di selezione, partendo da un girato presumibilmente cospicuo, con tre grosse elissi temporali, le prime due di un anno e mezzo, la terza di tre anni, dopo le quali ritroviamo ogni volta i personaggi cresciuti. A volte è proprio il lavoro di montaggio che conferisce una certa artificiosità. In certi casi il linguaggio cinematografico è davvero basilare, fatto di inquadrature fisse che si spostano giusto il minimo indispensabile. Questo rientra in una semplicità dello sguardo, nel voler vedere il tutto attraverso il punto di vista dei bambini – come vedremo –, che si esprime in una forma che ricalca quella degli home video. Ma al contrario altre volte abbiamo un montaggio nella scena, dei campi controcampi, e soprattutto la voce off, che esprime, in un caso, il pensiero di un personaggio, che mal si accorda con l’idea pura di cinema verità e che ci fa spostare le nostre antenne nella direzione della fiction. A volte la mdp cerca i personaggi, come se non sapesse prevedere le loro traiettorie, a volte sembra proprio messa a caso, a volte invece li precede. A volte le inquadrature, come quelle allo specchio, sono ricercate e sofisticate.
Il lavoro di Kaouther Ben Hania è comunque tutto improntato a vedere il mondo attraverso il punto di vista dell’infanzia, un’infanzia non esente da traumi, come quella di Zaineb e del suo fratellino minore, che hanno conosciuto prestissimo il concetto di morte, con il padre che è venuto a mancare quando la bambina aveva 9 anni, e che hanno sperimentato diversi mondi, la Tunisia, il Canada, diversi climi, diverse culture e religioni. Zaineb n’aime pas la neige vuole essere l’esplorazione del mondo con gli occhi dell’infanzia, in un arco di tempo cruciale per la crescita dell’individuo, quello che passa da infanzia ad adolescenza. Il linguaggio del film vorrebbe essere di mimesi rispetto a quello dei bambini. Già i titoli di testa sono scritti con grafia infantile, in doppia lingua, francese e arabo, mentre quelli di coda aggiungono dei disegnini, sempre infantili, che ripercorrono momenti del film. I bambini si esibiscono spesso in giochi, piccoli show davanti alla telecamera, canzoni, balli improvvisati, o il leccare il coltello dalla crema di cioccolato. Il linguaggio della regista spesso vuole combaciare con quello dei filmati amatoriali di famiglia, come a sottolineare che tutto parte da loro. E alla fine sono le stesse protagoniste, ormai ragazzine, che rivedono filmati della loro vita sullo smartphone, quasi a ripercorrere il film, che poi verrà nuovamente riassunto nei disegni sui titoli di coda. L’esibizione continua e passa per le canzoni che si cantano in classe fino al momento clou della recita nel teatrino, che segna il passaggio, doloroso, dalla Tunisia al Quebec.
Il mondo dei bambini e quello degli adulti configgono, già nella scena dove la televisione passa prima il proclama di guerra dei Talebani e poi i cartoon classici di Bob Clampett. I minori guardano ai grandi con curiosità, come a un qualcosa che devono cercare di comprendere, ma le cui logiche alla fine sfuggono. La bambina si lamenta di non avere la macchina. Giocano con un videogioco cruento dove possono uccidere il presidente siriano Assad. E qui già la morte è un gioco, diversa da quella vera del padre sulla quale a lungo si interrogano, “Papà ci vede da lassù”. La non comprensione e la gelosia per il nuovo papà, quando la madre trova un nuovo compagno. I conflitti religiosi, le differenze tra Gesù e Maometto, il prendere atto che in Canada si festeggia il Natale, ma in Tunisia no. Alla fine è un pupazzo di neve, quella neve che Zaineb non può soffrire, a rappresentare l’ennesima incarnazione della figura paterna.
Giampiero Raganelli