E Xiao Wei filava
Con la sua nuova opera, Youth (Spring) (il titolo originale cinese gioca sull’equivalente termine chun a significare sia gioventù che primavera), approdata in concorso a Cannes 2023, il documentarista Wang Bing sembra confermare un ritorno alle durate fiume degli inizi della sua carriera. Già il precedente Dead Souls, sempre a Cannes nel 2018 come proiezione speciale, superava le otto ore. Youth, nella versione presentata sulla Croisette, dura soltanto tre ore e mezza, ma si tratta della prima parte di un lavoro cui si aggiungeranno verosimilmente nuovi capitoli, come si capisce del resto dalla chiusura netta. Azzardata in effetti la scelta del festival di presentare un’opera da completare. Ma il ritorno alla lunghezza spropositata serve al filmmaker cinese per evitare una certa coralità del racconto, abbracciando narrativamente i singoli personaggi, raccontandoli e seguendoli uno per uno ancorché per qualche manciata di minuti, proprio come le anime dei defunti del film precedente. Un film che si snoda con la perenne attività di taglia e cuci, cui sono intenti i personaggi, adotta una struttura di montaggio dove si taglie e cuce molto poco. I soggetti stavolta sono i giovani operai dell’industria del vestiario di Zhili, centro nevralgico cinese del settore, vicino a Shangai. Ancora una volta ci sono dei fili che collegano tra loro i film di Wang Bing, che nascono casualmente, come gemmazione da un’opera precedente. A condurre il filmmaker verso questo soggetto alcuni ragazzini protagonisti di Bitter Money, peraltro altra fotografia dello stato del capitalismo cinese.
Le attività manufatturiere tessili si concentrano a Zhili, a 150 chilometri da Shangai, e sono strutturate nella forma dell’officina, aziende private che raccolgono giovani lavoratori provenienti dalle regioni rurali attraversate dal fiume Yangtze, che sono accolti in appositi dormitori. Si lavora dalle otto del mattino alle undici di sera, con due pause pranzo, pagati a cottimo. Una bottega tessile qui può essere aperta nel corso di una giornata. Al mattino si può trovare un laboratorio, affittarlo e mettere un cartello di ricerca di personale: bastano quindici operatori alle macchine da cucito. Tutto ciò che serve, macchine, materiali, tessuto, è disponibile localmente. Gli acquirenti vengono alla porta e, nella stessa sera, il prodotto finito può essere impacchettato e spedito in un convoglio speciale ai quattro angoli della Cina.
Esiste un principio della cultura orientale che vede le stagioni dell’anno come metafora delle stagioni della vita. Wang Bing, armato di telecamera a mano, segue questi giovani operai, nella primavera della loro vita, uno per uno, con didascalie che ne indicano le generalità e la regione di provenienza, raggruppati in blocchi corrispondenti alle diverse botteghe. La primavera è anche la stagione in cui i cinesi, in età da lavoro, svuotano i loro villaggi d’origine per trasferirsi nei grandi centri produttivi. Torneranno a casa in inverno per festeggiare in famiglia il Capodanno cinese. I personaggi del film appartengono a quella seconda ondata migratoria interna, persone nate dagli anni Novanta, che cercano lavoro nel settore tessile un quanto meno usurante di molti altri impieghi. Il regista segue questi ragazzi in quei meandri dei loro stabilimenti e nelle camere dei loro dormitori, in quegli agglomerati urbani prefabbricati, con unità abitative che si ripetono uguali, con ballatoi e lunghi cortili, immersi nella sporcizia. Sono giovani e, ai loro tavoli, nel perenne lavoro con la macchina da cucito, sono come nei banchi di scuola tra un’ora e l’altra, chiacchierano delle loro vacanze, a volte mettono la musica, come è consentito. Nei loro dormitori avvengono le dinamiche classiche giovanili, i flirt, le avance. L’atmosfera in Youth si mantiene estremamente claustrofobica, all’interno dei laboratori, con l’incessante rumore delle macchine, e dei dormitori. Poche sono le uscite da quegli ambienti asfittici, come quando i ragazzi vanno all’internet café, uno dei loro ritrovi nei pochi momenti di svago concessi.
«Noi ragazzi siamo dei piccoli imperatori» dice uno degli operai, nonostante la condizione di sfruttamento: tra le cose che emergono dal lavoro di Wang Bing è la persistenza di un patriarcato confuciano, modellato in epoca recente dalle leggi sul figlio unico. I piccoli imperatori sono un simbolo del capitalismo rampante cinese. E ancora il filmmaker riesce a fare un lavoro da sismografo, misurando lo stato del capitalismo cinese, in quelle tappe che lo hanno caratterizzato anche in Occidente. Lo sfruttamento non è più totale schiavismo, come si vede in altri film del regista, ma ci sono delle libertà, in ossequio a quel principio fordiano che vuole dare svago all’operario, modellandolo come consumatore. Predomina il mito della produttività e dell’efficienza, nell’obiettivo primario di riuscire a confezionare tot capi di abbigliamento all’ora. E chi, tra i lavoratori, non riesce a tenere quel ritmo di velocità non viene certo apprezzato. Le flessioni del mercato, come dice uno dei padroni, si ripercuotono ovviamente sui salari. Ma la cosa straordinaria di Youth, è quella di avere realizzato l’equivalente per un astronomo di registrare la nascita di un astro, a migliaia di anni luce, ovvero il fotografare l’insorgere, del tutto spontaneo, delle prime rivendicazione sindacali, delle minacce di quello che definiremmo sciopero, di fronte ai padroni irritati e arroganti. Momenti wisemaniani, pur in un approccio che non sempre combacia con quello del maestro del cinema osservazionale. A volte i personaggi di Youth denunciano la presenza degli operatori e la consapevolezza di essere ripresi.
Youth termina con una parte in campagna, seguendo una dei personaggi nel suo ritorno a casa. Una valvola di sfogo, in immagini, rispetto alla dimensione soffocante di tutto il film, tra campi di grano e alberi di pesco. Ma è solo un interludio. Il film riprenderà con i prossimi capitoli, con le altre stagioni della vita.
Giampiero Raganelli