Il lupo perde il pelo…
Sul fatto che Greg McLean sia un regista con le idee chiare sussistono pochi dubbi. In primo luogo per la capacità di rapportare in modo esemplare le storie che mette in scena all’ambiente in cui si svolgono, nella fattispecie della “saga” – ormai possiamo definirla così – di Wolf Creek le crudeli gesta del sanguinario bifolco Mick Taylor (sempre interpretato dal magnifico John Jarratt) con gli spazi sterminati dell’outback australiano. In seconda istanza perché ha compreso perfettamente che il primo postulato al quale un sequel deve tenere fede è quello di cambiare pelle, diversificarsi pur mantenendo intatte determinate peculiarità rispetto al riuscito episodio primigenio che lo ha preceduto. Osservato sotto questo punto di vista Wolf Creek 2 risulta quasi esemplare: se il primo film era una sorta di torture porn parecchio sui generis e molto disturbante proprio per il suo accentuato realismo, McLean immette nel secondo robuste dosi di spettacolarità, umorismo (nero, ovviamente) e pertinenti citazioni cinematografiche a iosa, facendone quasi un manuale teorico dell’approccio post-moderno alla materia narrata. E tuttavia la differenza più evidente risiede appunto nella descrizione del villain: se nel primo capitolo Mick Taylor compariva in pratica a metà pellicola, risultando una presenza immanente prima e oltremodo scioccante poi, anche per il modo in cui al pubblico era stata concessa la possibilità di conoscere la personalità dei tre giovani inevitabilmente votati al massacro, nel secondo è lui l’assoluto mattatore – mai definizione fu più calzante – della sceneggiatura. Mick Taylor infatti assume, in Wolf Creek 2, la piena consapevolezza del suo essere personaggio, un po’ come accaduto, dal terzo film in poi, al mitico Freddy Krueger della saga Nightmare. Con la decisiva differenza che, nello specifico, la sua ironia non diventa una sorta di captatio benevolentiae verso lo spettatore pure per alleggerire la tensione di alcune situazioni; in Wolf Creek 2 le numerose battute di Taylor ne fanno un prototipo aberrante di xenofobia, della sua deviata tendenza ad ergersi a paladino di un territorio di cui si sente l’assoluto proprietario. Anche la lettura politica è dunque servita: le vittime contro cui si accanisce nel film – prologo a parte – il nostro eroe in negativo sono spesso straniere (significativa la cruenta “collisione” contro i due ragazzi tedeschi, facilmente interpretabile come una cannibalizzazione del massimo esempio di società organizzata da parte del suo opposto più selvaggio…) e l’Australia viene descritta come il nuovo Far West, luogo dove la legge non esiste e se formalmente è presente in una forma ai nostri occhi degenerata, come ennesimo specchio sociale australiano, viene quasi giustamente eliminata senza troppi problemi come fa Taylor nell’incipit.
Del resto rimane comune ai due film il fattore maggiormente terrorizzante: che non appartiene alla figura di Mick Taylor, peraltro certamente inquietante di suo, ma alla suggestiva vastità degli spazi naturali dell’incontaminata Australia; dove la bellezza assoluta spalancata agli occhi dello sguardo umano si scontra con la paura che proprio in quel paradiso possa annidarsi qualcosa di atavicamente malvagio, violento e feroce, insito perciò nel dna dell’Uomo. Su questo apparente contrasto “filosofico” McLean gioca le carte migliori nell’aver realizzato i suoi due horror benissimo ancorati sia alla società contemporanea che alla Storia del Cinema. Non a caso la seconda parte di Wolf Creek 2 si trasforma anche, come accennato in precedenza, in una cavalcata semi-trionfale tra generi differenti come il western puro (Taylor che galoppa al tramonto, all’inseguimento della preda umana), lo Spielberg “homo homini lupus” degli esordi, con Duel (1971) apertamente citato e pure una rivisitazione spiazzante e sorprendente del torture porn degenerativo alla maniera di Saw, con Taylor nei panni di giudice assai poco clemente di un quiz incentrato, guarda un po’, sulla storia australiana ai danni di un giovanotto suddito britannico di sua Maestà, in una sottolineata occasione di nemesi storica. Una situazione a dir poco surreale che, se da una parte mitiga una tensione altrimenti insostenibile, dall’altra rafforza la chiave di una possibile lettura antropologica del film, aspetto che McLean non ha mai trascurato nell’intero arco delle sue due opere.
Si astengano comunque dalla visione stomaci deboli, anche perché gli effetti speciali in computer graphic fanno ampiamente il loro sporco dovere. Si accomodino invece tutti gli appassionati: Wolf Creek 2 è l’ennesima dimostrazione che l’horror, se messo in mani capaci, può davvero aprire gli occhi su certe situazioni magari neppure troppo lontane come sembrano, non solo geograficamente.
Daniele De Angelis