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I segreti di Wind River

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VOTO: 8

Fino all’ultimo gemito

Che la frontiera, nello specifico quella moderna americana, fosse un luogo prediletto e centrale nel cinema di Taylor Sheridan lo avevamo ampiamente capito con le due pellicole da lui sceneggiate, che tanto hanno raccolto in termini di consensi e riconoscimenti, ossia Sicario di Denis Villeneuve e Hell or High Water di David Mackenzie. In quei due film si era avventurato nel e sul confine con il Messico per raccontarne, seguendo traiettorie differenti, le nefandezze e gli orrori del quotidiano. A ulteriore conferma della suddetta centralità arriva una nuova sceneggiatura dal titolo Wind River (nella titolazione italiana I segreti di Wind River), che di fatto chiude (?) un’ipotetica trilogia dedicata proprio alla frontiera, vista non solo come terra di confine sempre più macchiata di sangue e invalicabile a causa delle barriera erette per non essere oltrepassate, o come semplice cornice fisica dove ambientare storie per il grande schermo, ma anche come confine metaforico tra la vita e la morte, nel senso non religioso del termine, dove si decide e si consuma il destino delle persone che lo abitano.
Con la medesima intenzione di rimanere ancorata alla frontiera a stelle e strisce, questa volta la penna di Sheridan si sposta dal Sud al Nord-Ovest al seguito di Jane Banner, un’agente dell’Fbi a cui viene affidata la sua prima missione: indagare sul misterioso omicidio di una ragazza in una riserva indiana tra le foreste del Wyoming. Ad aiutarla in quello che si preannuncia un caso complicato, Cory Lambert, un esperto cacciatore dal passato difficile che aveva qualche giorno prima rinvenuto il corpo della giovane vittima tra le nevi. Man mano che indagano i due si inoltrano in un mondo crudo e violento, mettendo a rischio le proprie vite.
Per portare sullo schermo, stavolta però anche nelle vesti di regista, qui alla sua seconda esperienza dietro la macchina da presa dopo l’horror splatter Vile, l’autore si rifà nuovamente ai codici del cinema di genere, mescolando sapientemente all’interno di un’anima crime tanto la componente poliziesca e noir che quella western. Da questo punto di vista, Wind River si presenta al pubblico come un ibrido, nel quale colori, registri e generi, si fondono senza soluzione di continuità. Dalla loro fusione nasce il tutto e quel tutto restituisce sullo schermo un’opera glaciale nelle atmosfere, ma via via sempre più coinvolgente man mano che le tracce mistery impresse sulla neve si sciolgono per svelare la verità di quanto accaduto. Accaduto che purtroppo non è il frutto dell’immaginazione di Sheridan, ma quanto puntualmente si è verificato e che continua a verificarsi nella vita reale, che il regista, attore e sceneggiatore statunitense ha dichiarato con la didascalia che dà il via alle ostilità: “Ispirato a fatti realmente accaduti”. Centinaia di native indiane, infatti, tutti gli anni spariscono misteriosamente nel nulla e nella completa indifferenza delle Istituzioni. E la mente, in tal senso, torna di default a Bordertown. Il film diretto da Gregory Nava si basava su una serie di assassini irrisolti a Ciudad Juárez, Chihuahua, una città/fabbrica lungo il confine statunitense col Messico, fra Rio Bravo del Norte e El Paso, Texas (stime ufficiali parlano di circa 400 donne che sono state rapite, torturate – spesso stuprate – e assassinate dal 1993 in e nei dintorni di Juárez, ma probabilmente la stima reale è molto superiore). A suo modo, dunque, anche Sheridan accende i riflettori su questa atroce e vergognosa piaga, tra l’altro sempre più attuale. Di conseguenza, questo è un aspetto importante che andrebbe tenuto seriamente in considerazione in fase analitica. Noi lo abbiamo fatto, perché è un aspetto che ai fini della valutazione dei contenuti proposti non deve passare in secondo piano per fare spazio alla sola dimensione del genere. Questo, infatti, non è solo un film di forma, dove tra l’altro l’autore ci dimostra di sapersela cavare anche come regista (vedi l’uso della soggettiva), ma di contenuti filtrati e non pieni di sostanza drammaturgica. Al tema metaforico della frontiera si vanno ad aggiungere quelli del perdono e delle barriere razziali.
Con Wind River, reduce dalla vittoria del premio per la miglior regia della sezione Un certain regard di Cannes 2017 e della presentazione alla 35esima edizione del Torino Film Festival (Festa Mobile), che anticipano l’uscita nelle sale nostrane con Eagle Pictures, Sheridan dimostra anche di essere molto attento ai personaggi e alla cura nella recitazione di chi è chiamato a interpretarli. Probabilmente, le tante esperienze maturate sul set davanti la macchina da presa con ruoli in numerose serie tv di successo (Walker Texas Ranger, La signora del West, N.Y.P.D, Csi: NY, Csi – Scena del crimine, Veronica Mars, Sons of Anarchy) lo hanno aiutato a fare esperienza e a crescere in tal senso. Tale crescita traspare nella direzione degli attori che, nella sua opera seconda, a differenza del suo meno riuscito esordio, si materializza nelle buone performance di Elizabeth Olsen e di Jeremy Renner. Queste aiutano il film quelle volte – non tante per fortuna – che questo sembra accomodarsi. In tal senso, loro si fanno carico delle scene meno riuscite. La timeline di Wind River, infatti, alterna momenti di stasi a improvvise e riuscite folate di violenza, che danno scariche elettriche e cinetica al tutto (vedi l’accerchiamento nella raffineria di petrolio, la colluttazione e lo stupro nel caravan, il fuoco incrociato dell’epilogo). Quei momenti di stasi potrebbero sembrare superflui, ma invece sono delle calibrate anticamere di una tensione latente destinata a esplodere.

Francesco Del Grosso

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