Lontano dagli occhi
Stare lontani dal proprio paese per molti anni non permette di conoscere da vicino determinate realtà che tanto hanno contribuito a fare la storia del paese stesso. Ne sa qualcosa il regista iraniano Mehran Tamadon, lontano dalla sua patria dal 2014 (dopo aver avuto non pochi problemi in seguito alla realizzazione del suo documentario Iranien) e che da tempo risiede a Parigi. Il desiderio di scoprire cosa si cela dietro un regime autoritario e di come venga vissuta la prigionia nelle carceri di Evin e di Ghezel Hesar lo hanno portato a realizzare, dunque, il documentario Where God Is Not, presentato in anteprima alla 73° edizione del Festival di Berlino, all’interno della sezione Forum.
Where God Is Not colpisce immediatamente per il singolare approccio registico adottato. La classica forma documentaristica viene qui parzialmente abbandonata per far posto a una ben più complessa struttura in cui cinema, metacinema e, non per ultima, realtà si incontrano, si confondono e si fondono per dar vita a qualcosa di unico e singolare.
Tre personaggi ci accompagnano in un doloroso viaggio tra passato e presente. Una donna e due uomini, ex prigionieri politici, si raccontano davanti alla macchina da presa. Le scenografie sono semplici ed essenziali: alcune cantine di Parigi. All’interno di queste cantine, il regista – insieme alle persone di volta in volta intervistate – cerca di ricostruire con assi di legno e vecchi letti arrugginiti le celle delle suddette prigioni e gli stessi letti su cui i carcerati venivano ogni volta interrogati e torturati. Le celle sono ancora più piccole di come le si immagina: 25 – 30 mq in cui vivevano dalle 25 alle 30 donne. Le torture provocavano ferite e fratture che sarebbero guarite solo dopo molto e molto tempo.
In Where God Is Not tutto ci viene raccontato dai protagonisti fin nei minimi dettagli. Alle parole il (difficile) compito di rendere vive e pulsanti nella mente dello spettatore immagini di tempi passati. E la cosa funziona. Il regista, dal canto suo, ha mantenuto anche un certo distacco e, se vogliamo, anche un certo scetticismo nei confronti di ciò che gli è stato raccontato, permettendoci di osservare i fatti con la massima oggettività.
Non v’è bisogno di fronzoli, in Where God Is Not, per far sì che il pubblico possa farsi un’idea di ciò che è stato. Nemmeno di ridondanti didascalie, fatta eccezione per poche, essenziali indicazioni all’inizio della pellicola. Una struttura ellittica in cui vediamo la macchina da presa rivolgersi verso il cielo (“Dov’è Dio?”) è una delle rare escursioni “all’esterno” del regista e dei suoi protagonisti. Gli ambienti angusti, le luci basse e un crudo, spietato realismo fanno il resto. E ci regalano un prezioso scorcio su una realtà di cui abbiamo spesso sentito parlare, ma che nessuno conosce davvero da vicino.
In Where God Is Not il passato è più vivo che mai e il presente non sembra promettere nulla di buono. Che ne sarà degli esseri umani? Probabilmente, nemmeno uno sguardo supplichevole rivolto verso il cielo sembra poter mai trovare una risposta appropriata.
Marina Pavido