Tanti, troppi film in uno!
Un giovane studente universitario. Il progetto di un dottorato. Lo strano caso di un paesino dove l’oceano è misteriosamente sparito e con esso anche tutti i bambini del posto. Un mistero da risolvere. Con tali premesse, Noi siamo la marea (titolo internazionale We Are the Tide) – diretto dal giovane regista tedesco Sebastian Hilger e presentato in concorso alla 34° edizione del Torino Film Festival – ha tutta l’aria di essere un lungometraggio intrigante ed appassionante, soprattutto perché si preannuncia come una singolare commistione tra la fantascienza ed il thriller, senza dimenticare i drammi personali, oltre alla ricerca di sé stessi. Eppure, proprio per aver messo così tanta carne a fuoco, questo ultimo lavoro di Hilger si è purtroppo rivelato una delusione. Ma andiamo per gradi.
In principio vediamo Micha, diligente studente universitario che da anni cerca di portare avanti il suo progetto riguardante gli strani fenomeni naturali verificatisi nella cittadina di Windholm. Il principale problema, però, è l’arretratezza del sistema universitario in sé, che poca fiducia gli ha dato fin dall’inizio. Ed ecco che entra in scena Jana, la sua ex ragazza tornata a Berlino dopo un lungo periodo di silenzio. In Seguito all’ennesima delusione in ambito accademico, i due decidono di partire alla volta di Windholm, per analizzare da vicino le cause che hanno portato alla sparizione dell’oceano e di tutti i bambini del posto, i cui corpi non sono mai stati ritrovati.
Fin qui tutto bene. Il problema, come già abbiamo detto, è che, da questo punto in avanti, il discorso sul sistema accademico in sé viene completamente abbandonato ed il mistero scientifico si trasforma in un vero e proprio giallo, senza riuscire, però, nell’intento di creare le giuste dinamiche e la giusta “elettricità” richieste. Colpa, forse, di ritmi mal realizzati – con scene di tensione enfatizzate eccessivamente dalla musica, ma che, alla fin fine, si rivelano ben poco decisive in qualità di snodi narrativi – e, diciamolo pure, anche di una certa inesperienza alla base di tutto. Come se non bastasse, oltre alla critica al sistema universitario, anche molti altri elementi tirati in ballo – come, ad esempio, i rimandi all’infanzia del protagonista – vengono lasciati in sospeso senza essere successivamente sviluppati, o, addirittura, portati a conclusione in modo del tutto sommario, già visto ed anche leggermente stereotipato. Peccato. Soprattutto perché, all’interno dello stesso script, vi sono in realtà non pochi fattori di potenziale interesse. Basti pensare anche solo all’elemento dell’acqua: l’acqua che dà la vita e che, in questo caso, sta a simboleggiare una vera e propria rinascita, sia per quanto riguarda i bambini scomparsi che il protagonista stesso.
Malgrado tutto, però, al giovane Hilger un merito va riconosciuto: tutto sommato il ragazzo ha dimostrato buone capacità registiche, con una buona gestione degli spazi e movimenti di macchina dinamici e sempre appropriati. E questo non è cosa da poco. Con tali premesse, i prossimi step da affrontare sono innanzitutto trovare una propria strada, senza voler a tutti i costi diventare il nuovo Steven Spielberg – di Steven Spielberg ne abbiamo già uno, fino a prova contraria – ed evitare la scelta di abbracciare così tante tematiche e così tanti generi in una sola volta. In poche parole, less is more!
Marina Pavido