“Atarassia” possibile risposta alla pandemia
Ci sono incontri rimandati a lungo, da cui scaturiscono alfine innegabili soddisfazioni. Hirobumi Watanabe, alfiere di un cinema indipendente “Made in Japan” dalla ben definita impronta stilistica, avrebbe dovuto raggiungere Udine già nel 2020, quando il Far East Film Festival aveva deciso di rendergli omaggio con la proiezione di ben 4 film: Party ‘Round the Globe, Life Finds a Way, Cry e I’m Really Good, terminato da poco.
Covid, lockdown e restrizioni varie agli spostamenti avevano poi impedito al festival (come a tanti altri) di svolgersi in presenza. Tuttavia, anche se non è la stessa cosa, grazie all’edizione del Far East svoltasi interamente online avevamo avuto comunque la possibilità di scoprire l’universo poetico di Watanabe, quel suo modo così peculiare di fare film. E conseguentemente di innamorarcene.
Ironia della sorte, dei suoi nuovi lavori proprio un documentario sui generis girato nei “momenti caldi” della pandemia è stato proiettato per primo, all’interno di questo 25° Far East Film Festival, ed è pertanto il titolo che assieme a Techno Brothers gli organizzatori hanno scelto per rinnovare l’invito ad Hirobumi Watanabe, che stavolta a Udine è riuscito a fare capolino sul serio, di persona! E non finisce qui. A fargli compagnia c’è il fratello Yuji, compositore delle musiche, per cui è stato piacere doppio poter incontrare a Udine i “Watanabe Bros”, ovvero entrambe le menti creativi dell’autarchica, sempre sorprendente Foolish Piggies Films.
Tornando ora a Way of Life, questo il titolo del documentario, in questi ultimi anni di opere cinematografiche incentrate sulla pandemia o comunque girate in quel periodo terribile ne abbiamo viste parecchie, alcune meritevoli e altre meno. Fa piacere notare come anche qui il cineasta giapponese sia riuscito a portare sullo schermo un assai personale punto di vista. Il suo approccio agli eventi ci viene quasi da definirlo “atarassico”. Recuperiamo pertanto prima qualche definizione istituzionale di “atarassia”, in greco antico ἀταραξία: “L’atarassia è un termine filosofico, già usato da Democrito, ma adottato principalmente dalle scuole post-aristoteliche stoiche, epicurea e scettica per designare «la perfetta pace dell’anima che nasce dalla liberazione dalle passioni», nel più ampio contesto della filosofia morale legata alla ricerca della felicità.”
Saremo anche un po’ “visionari” (e il film del resto è stato proiettato al Cinema Visionario di Udine), ma il termine ci pare calzare a pennello. Quelle ieratiche scene realizzate con la camera fissa, del resto, che assieme al frequente utilizzo del piano-sequenza fanno parte del DNA dell’autore sin dagli esordi, più che accentuare l’inevitabile impatto claustrofobico delle misure anti-Covid sembrano quasi sancire, paradossalmente, un potenziale spazio di liberta. Fotografata nel solito, eccellente, nitido bianco e nero, l’angusta cameretta del cineasta nipponico pur vedendolo in qualche modo “al confino” cessa a tratti di essere luogo di costrizione, riempiendosi (e all’occorrenza “colorandosi”: il vorticoso montaggio dei disegni da lui realizzati genera, periodicamente, quei repentini passaggi al colore che restituiscono linfa vitale allo sguardo dello spettatore) di tutte le sue attività creative.
In sottofondo la follia del mondo contemporaneo non cessa mai di mandare segnali. Da un lato attraverso le notizie dei vari telegiornali, con le misure volute dall’ex premier Abe spesso in primo piano, mentre ad aprire scenari nuovi e non meno inquietanti sono le telefonate con amici e colleghi, specie colui che da lontano può testimoniargli il differente evolversi della situazione in Corea del Sud. Si paventano quadri da incubo, anche per quanto concerne i sempre più pervasivi strumenti di controllo della popolazione. Ma ciò in tali dialoghi avviene sempre con un’ironia di fondo che, pur senza rinunciare a qualche doverosa stilettata, finisce per smussare ogni asprezza, rimettendo ogni cosa al suo posto. “Atarassicamente”, per l’appunto. E a rasserenare ulteriormente ecco il progressivo moltiplicarsi delle coloratissime opere pittoriche di Watanabe, dallo stile così deliziosamente naïf, primitivo e surreale, come pure le buffe interazioni con famigliari ed amici. Non manca poi qualche sporadico detour fuori dalle dimensioni in ogni caso ridotte di casa. Il più rinfrancante è senz’altro quello finale, un lungo piano-sequenza che funge anche da backstage dell’altro film da lui iniziato al termine del “lockdown” (trattasi proprio di Techno Brothers: e così il cerchio si chiude), regalando proprio in chiusura un’orgogliosa dichiarazione di ritorno alla vita piena che, per un simile cineasta, non può che coincidere col set dell’ennesimo lungometraggio in produzione. Sempre poi all’interno della stessa, piccola factory, sul cui lavoro pure il fratello Yuji pone un sigillo importante, contribuendo a colonne sonore che sanno evocare in modo sottile il mood di ciascuna operazione cinematografica.
Stefano Coccia