In decompressione
Avete presente cosa sia una tappa di decompressione, detta anche pausa, fermata di decompressione o tappa di desaturazione? Per coloro che non lo sapessero, si tratta del periodo di tempo che un subacqueo deve spendere ad una profondità costante alla fine di un’immersione per eliminare in sicurezza i gas inerti dal corpo col fine di evitare problemi. La pratica delle tappe di decompressione è chiamata decompressione a stadi o decompressione a tappe. Vi starete chiedendo, giustamente, l’attinenza tra la suddetta pratica e un film come Voir du pays. Ebbene esiste, ma su un piano strettamente metaforico.
Leggendo la sinossi dell’opera seconda della sorelle Muriel e Delphine Coulin, trasposizione per il grande schermo del romanzo omonimo firmato da quest’ultima, il riferimento metaforico alla fase di decompressione è venuto a galla in maniera fisiologica. Nella pellicola delle cineaste francesi, già autrici nel 2011 del pregevole 17 filles, ci troviamo catapultati al seguito di Aurore e Marine, due giovani soldatesse di ritorno dall’Afghanistan. Con la loro sezione trascorrono tre giorni a Cipro in un hotel a cinque stelle. In mezzo ai turisti vivono quello che l’Esercito definisce appunto un periodo di “decompressione”, utile a dimenticare la guerra e prepararsi a un reinserimento familiare che potrebbe rivelarsi traumatico. Le due donne, che sembrano finite lì per caso, cercano di ritrovare il senso del quotidiano, ma rimangono una forza minoritaria guardata con diffidenza dai commilitoni maschi. Questa terra di mezzo fatta di lussi edonistici, svago preconfezionato e vitelloni locali con i fucili nel portabagagli, non fa che restituire l’immagine di un mondo segnato da regole feroci e impassibili. Non basteranno le feste in piscina e gli esercizi psicologici di scarico per cancellare l’esperienza bellica.
Di fatto, le due protagoniste della pellicola delle Coulin, presentata nella Mostra concorso della 35esima edizione del Bergamo Film Meeting a quasi un anno di distanza dalla vittoria del premio per la migliore sceneggiatura nella sezione Un Certain Regard di Cannes 2016, così come il resto dei componenti dell’unità alla quale appartengono, ci sembrano assomigliare a dei subacquei costretti ad attraversare gradualmente delle tappe prima di riemergere dalle profondità marine, con il resort cipriota di lusso che appare come un gigantesco acquario di vetro (fatto di vetri, superfici specchiata e ambienti a vista) che racchiude gli insoliti ospiti. Come delle specie di cavie da laboratorio loro, così come il resto della truppa, vengono sottoposte a controlli fisici e soprattutto psicologici, attraverso test attitudinali, confronti di gruppo e sessioni di debriefing in un simulatore 3D. Attraverso di esso, ciascuno a proprio modo, rivivono i momenti difficili e traumatici del periodo trascorso nell’inferno di Kaboul, a cominciare dall’imboscata nella quale hanno perso la vita due commilitoni. Un evento, questo, che ha segnato profondamente molti di loro, comprese le due protagoniste, che provano in tutti i modi a nascondere le ferite fisiche e in primis mentali che quell’esperienza ha lasciato sulla loro pelle e nelle loro teste, come ferite ancora aperte che difficilmente si cicatrizzeranno. Non basteranno di certo i tre giorni nell’hotel a velocizzare la guarigione e a cancellare quelle ferite, perché gli orrori della guerra, quelli, non si cancellano tanto facilmente.
Dal canto suo, la Settima Arte si è più volte occupata del tema, ossia della cosiddetta sindrome post-traumatica da stress che ha colpito e continua a colpire veterani, reduci e soldati di ritorno dalle varie missioni nei teatri di guerra di turno. Gli orrori riaffiorano in maniera devastante anche lontano dai quegli scenari, perché stampati a caratteri cubitali nei ricordi che tornano puntualmente a bussare alla porta di chi li ha vissuti sulla propria pelle. Il cinema, dunque, ha affrontato l’argomento in questione in diverse forme e da altrettante angolazioni. Ultimo in ordine di tempo Ang Lee nel suo Billy Lynn. Ed è proprio con il film diretto dal regista asiatico che Voir du pays ci sembra avere maggiori affinità elettive, con Aurora e Marine che si trovano catapultate, come i membri dell’unità protagonista della pellicola a stelle e strisce, in un ambiente che dovrebbe accogliere, ma che invece si dimostra ostile e indifferente: lo stadio nel film di Lee e il resort in quello delle colleghe francesi. In entrambe le occasioni i personaggi appaiono come dei pesci fuor d’acqua, circondati da persone che sono poco interessati alla loro presenza. I militari del film delle Coulin, in particolare, sono quasi delle entità ectoplasmatiche, praticamente dei corpi estranei che passano inosservati agli occhi degli altri ospiti dell’hotel. Questo fa della loro ultima fatica dietro la macchina da presa sia una riflessione sulla guerra in generale e sulla sua messa in discussione, sia una critica più o meno diretta a coloro che le combattono in nome di qualcuno o qualcosa (in primis la democrazia e la difesa della Patria). Temi estremamente complessi e intricati, questi, che in Voir du pays vengono affrontati da un punto di vista prevalentemente femminile, con l’elemento maschile che, alla pari di 17 filles, fa più che altro da contorno. Stesso approccio alla materia scelto da Zaynê Akyol per il suo Gulistan, terre de roses, che rappresenta il principale motivo d’interesse nei confronti di entrambi i film.
Per il resto, Voir du pays ha dalla sua parte una buona scrittura, che genera a sua volta una solida drammaturgia e un discreto disegno dei personaggi. Ciò che impedisce, però, allo script di contribuire al 100% alla riuscita del progetto è la continuità. Una serie di passaggi a vuoto e di digressioni di troppo nella parte finale, ossia quella che porta le protagoniste a confrontarsi con la realtà cipriota e con le sue divisioni interne (il muro che separa la parte greca da quella turca), non ha la stessa efficacia e forza della parte ambientata nell’albergo. È lì che il secondo film delle registe transalpine mostra il suo lato migliore (buonissima costruzione della tensione) ed è lì che le autrice riescono ad esprimere al meglio le capacità narrative e tecniche. Ed è sempre lì che le interpreti offrono i passaggi più convincenti delle rispettive performance.
Francesco Del Grosso