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Viva la sposa

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VOTO: 6

Circolo vizioso

Si vorrebbe sempre parlar – o scrivere, nel nostro caso – bene di Ascanio Celestini, artista a tutto tondo che crede profondamente in ogni cosa che fa. Nel suo secondo lungometraggio di finzione – Viva la sposa, presentato nell’ambito delle Giornate degli Autori alla Mostra del Cinema di Venezia 2015 – da regista punta la macchina da presa sulla Roma meno cinegenica, quella dei reietti inseriti in un contesto marginale di cui non si parla mai perché essi non fanno tendenza e neppure moda. Non sono “clienti” riferibili ad alcun target pubblicitario: semplicemente si arrabattano per sopravvivere attraverso espedienti e con l’alcol che, all’occorrenza, può illudere di dare una spinta. Fosse stato ancora vivo avrebbero di certo affascinato un certo Pier Paolo Pasolini. Sono comunque riusciti a suscitare l’interesse dei fratelli Dardenne, nella circostanza produttori di un film che ha goduto di una contribuzione europea che tanto si vorrebbe definire ampiamente meritata. Un cinema necessario perché capace di infilare il coltello nella piaga di una Capitale metafora dell’Italia tutta, che affonda nell’ignavia scaturita dalla sua stessa pigrizia, da un disinteresse ormai endemico verso qualunque forma di collante istituzionale, peraltro del tutto ricambiato dall’alto.
Celestini regista, per Viva la sposa, sceglie la coralità del racconto, con personaggi che si affastellano senza sosta a descrivere un quadro, in determinati frangenti, tanto surreale quanto privo di speranza. Rispetto al riuscito La pecora nera, film d’esordio molto incentrato sulla sua figura, parrebbe un’ulteriore tappa di un percorso di crescita artistica. E per molti versi lo sarebbe anche. Buona regia, attenta ai dettagli di un ambientazione che fa dello squallore fisico lo specchio fedele di una condizione dell’anima, illuminata (per così dire…) da par suo dalla splendida fotografia di Luca Bigazzi. Ottima direzione d’attori, ognuno fortemente motivato in quello che è il proprio ruolo, mai insignificante ma votato a comporre il quadro di una natura morta in rapido e irreversibile disfacimento. E ovviamente sarebbe oltremodo sciocco accusare il Celestini autore di pessimismo eccessivo, se non addirittura un nichilismo esibito nella sua forma più marcata. Per molti scorgere un raggio di speranza, di questi tempi, risulta essere davvero un’impresa ai limiti dell’impossibile. Eppure qualcosa non torna in Viva la sposa. Quello che vorrebbe essere un discorso (anche) di critica sociale rimane in uno stato embrionale, scarsamente supportato da una contestualizzazione organica. Persino il j’accuse verso la pubblica sicurezza, nella fattispecie i carabinieri rei nella finzione di un pestaggio a morte tanto vergognoso quanto proditorio, pare un po’ buttato lì a caso, così per ricalcare alcuni tragici episodi realmente accaduti nella cronaca vera più nera possibile. Il fatto che esistano i deboli e i forti, le vittime e gli aguzzini sotto molteplici punti di vista e in ogni campo, è ormai assodato: basta essere minimamente informati sui fatti oppure solamente gettare uno sguardo fuori dal proprio simbolico guscio. In Viva la sposa Celestini commette l’errore – comprensibile ma purtroppo non del tutto perdonabile – di spostare l’asse della sua interessante poetica da un piano sociologico, cioè strettamente umanista, a quello meramente ideologico, finendo con il togliere spessore ai personaggi raccontati, il suo in primis. Prigionieri di un circolo vizioso che li costringe al ritorno eterno ad un punto di partenza che potremmo identificare nel bar della zona in cui si sono svolte le riprese, il quartiere Quadraro della Capitale. Un (non) luogo dove si crede molto poco nel futuro, si vive ancor meno il presente ma in compenso si prova a dimenticare per vie traverse la futilità “omicida” del quotidiano.
Morale della favola: la sposa americana – ingombrante simbolo felliniano che si aggira perlopiù televisivamente nel film come un Berlusconi qualsiasi ai tempi del cosiddetto “miracolo italiano” – continuerà a mostrarsi indefessamente nel nome dell’equazione apparire uguale essere; mentre tutti gli altri personaggi appaiono condannati irreversibilmente da un contesto oltremodo punitivo. Così anche la scudisciata finale sul destino ineluttabile dei poveri cristi finisce col non raggiungere quello zenit da tragedia immane e definitiva che era nelle intenzioni.
Sarà per la prossima volta, Ascanio.

Daniele De Angelis

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