L’ultraviolenza ai tempi dell’Internet
Con il martello, con la mazza da baseball, con la mazza da golf. Con le forbici, con un cuscino, con un mattone. Con benzina e accendino. Con un taglierino, con uno stiletto, con una cordicella. Con una catenella. Uccidere è come cucinare, mille utensili diversi e tanta fantasia possono produrre risultati straordinari, talvolta originali, ma l’originalità non è un valore assoluto, almeno per noi, quello che conta è la confezione, la rappresentazione Guardammo I Saw the Devil (we too) e capimmo che niente sarebbe stato più come prima, soccombemmo davanti ad una visione ultraviolenta radicale rilasciata attraverso un’opera perfetta e durevole. Occhi sbarrati innanzi alla macelleria coreana, affrancati dalle sovrastrutture sociali e culturali, occhi morbosi, increduli, avidi. Purificati. La mistica dell’ultraviolenza, come il connazionale Bedevilled poco tempo dopo, come il francese Martyrs qualche tempo prima, pieno di sottotesti religiosi e culturali così da diventare esegetico di un intero genere. Poi, nel 2013, un’altra rivoluzione, The Act of Killing, l’ultraviolenza vista attraverso la parola, e The Raid, l’ultraviolenza agita senza controfigure, dall’Indonesia. Lontana e ignorata terra di dittatura e olocausti e massacri impuniti, l’Indonesia versa sangue sempre fresco sui suoi strani fiori del male, e dall’Indonesia arriva Killers. Dirigono i Mo Brothers, fratelli di fatto non di nome, registi virtuosi e pazzerelli con la fama di essere molto molto cattivi. Produce Gareth Evans, grande amico dei due (episodio Safe Heaven di V/H/S/2), un po’ come Quentin Tarantino che è inspiegabilmente grande amico di Eli Roth. Killers costruisce le convergenze parallele di due assassini diversamente psicopatici, uno indonesiano, l’altro giapponese, che alacri scannano per svariati motivi – tutti parimenti inconsistenti -, filmano e mettono tutto in rete, ultraviolenza for youporners, snuff clips for dummies. L’intento, ambizioso ai limiti del didascalico, è dimostrare che il mondo è dicotomico, diviso tra assassini e vittime, in mezzo chi clicca e guarda e non ha ancora deciso da quale parte stare. La rappresentazione degli omicidi è analitica e scrupolosa, alcune visioni sono memorabili, cinismo e ironia si accoppiano e rendono plausibile la lunghezza esagerata del film. C’è anche un inseguimento nei corridoi di un albergo, mille contro uno, che fa gridare al capolavoro e che sembra uscire proprio da The Raid. Eppure, sotto la pioggia di sangue, manca un cuore che pulsa, manca il racconto. I personaggi principali sono macchine di scena, non hanno passato né futuro, si muovono incerti tra balzi di sceneggiatura e colpi di scena gratuiti quanto grotteschi, subordinati alla mostra delle atrocità. Il florilegio di omicidi è esibito come un campionario, a prender vita sono solo i personaggi secondari delle scene più riuscite, come i due poliziotti, il lenone antillano, il tassista con il giornale, il papà figlicida nella Foresta dei Suicidi.
Che poi la Foresta dei Suicidi è la foresta di Aokigahara in Giappone, ai piedi del Monte Fuji, a decine ogni anno gli aspiranti suicidi nipponici e forestieri vi si recano, muniti di cappi, o lame, e tende da campeggio, per trascorrervi le loro ultime ore in serenità ed in modalità ecocompatibile. Ma questa è un’altra storia, più che ultraviolenta, dannatamente ultravera, se non ci credete, guardate i video atroci su Youtube. Guardate, appunto.
Dikotomiko
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