L’espressione visiva del dolore
Ridefinire il disagio adolescenziale in termini nuovi, inediti, tracciare coordinate, strade che vadano in direzioni differenti rispetto a quelle battute da molto, moltissimo cinema, non è impresa da poco. Ci voleva un autore europeo al suo debutto, dopo decenni in cui il teen drama aveva imperversato oltreoceano, tiranneggiando sull’immaginario e sulle rappresentazioni di mezzo mondo, per declinare in nuove, inedite suggestioni espressive una questione tanto complessa. Ecco allora, in concorso alla trentaduesima edizione del Torino Film Festival, l’enorme piccolo Violet del belga Bas Devos. Storia dell’elaborazione del lutto, del senso di colpa, del rimorso e della muta disperazione di un ragazzo che ha visto uccidere (e noi con lui, mentre la macchina da presa si immergeva, sezionava, contemplava i monitor di sorveglianza del centro commerciale, nei primi minuti del film) in una lite l’amico, senza intervenire.
L’America è lontana, lontano il suo approccio logorroico, patinato, lontane le sue storie tutt’al più manieristiche di ordinaria follia. C’è molto Gus Van Sant nel film di Devos, questo è vero. C’è Elephant e soprattutto Paranoid Park. Ci sono i tempi morti che divengono silenzi contemplativi, vuoti da colmare col puro sguardo, con una composizione dell’inquadratura, una messa in scena, una resa espressiva curatissima ed evocativa. Ma c’è anche (non ce ne voglia Van Sant) molto di più.
Con la sua inventività visiva in cui le immagini si succedono con l’evocatività pittorica di quadri (non è casuale l’uso del formato 4:3), la sua estrema messa a fuoco che fa esplodere, trasfigurandoli, particolari e dettagli, i suoi carrelli delicati e vorticosi a un tempo, le sue suggestioni sperimentali, ipnotiche, da videoarte che, tra un fotogramma e l’altro, balenano, sgranate, all’improvviso sullo schermo, Violet tenta (riuscendoci) di riportare il cinema alla sua vera natura, di ricorrere alle infinite e peculiari possibilità del mezzo. Un cinema puro capace di servirsi dei suoi codici espressivi per rappresentare uno stato esistenziale che più che razionale, verbale, logico è, prima di tutto, emozionale e affettivo. Non sorprende allora quanto il film sia silenzioso, quanto i dialoghi siano scarni, elementari. Un film muto o, meglio, a-verbale, che si fa cinema dei sensi e del senso. Perché per quanto, a prima vista, possa apparire nient’altro che un imponente esercizio di stile, una monumentale e suggestiva accozzaglia di espressioni senza alcun contenuto, Violet è realmente intriso di senso, del senso pre-logico, pre-verbale, totalmente affettivo delle sensazioni, l’inedita traduzione figurativa di uno stato emotivo, di un disagio dell’anima. Un’esperienza intensa, passionale, coinvolgente su un piano prettamente emotivo prima ancora che banalmente razionale.
Un modo di fare cinema, di guardare alla realtà delle cose, dentro e fuori, cui non siamo (o, forse, non siamo mai stati) abituati, una rappresentazione perfetta e suggestiva che gioca sulla nostra pazienza, sulla nostra (dis)educazione, sulla nostra ottusa e costante cecità.
Mattia Caruso