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Vincent deve morire

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VOTO: 6,5

Tutti contro uno, uno contro tutti

Prima che nelle sale nostrane inizino ad approdare i titoli presentati nel corso del 77° Festival di Cannes, società di distribuzione battenti tricolore come I Wonder Pictures, che dalla succulenta line-up della kermesse francese è solita pescare ogni anno per il proprio catalogo molte pellicole degne di nota, ha ancora da smaltirne qualcuna dell’edizione precedente. È il caso di Vincent deve morire che proprio sulla Croisette ha fatto il suo debutto alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2023. L’opera prima di Stéphan Castang, attore con il vizietto della regia (suoi alcuni cortometraggi pluripremiati come Finale e Jeunesses françaises) che i più attenti ricorderanno nel cast di Mercenaire o Lo sciame, è finalmente disponibile nei cinema italiani dal 30 maggio dopo un lungo e fortunato tour nei festival internazionali tra cui Torino, Neuchâtel, Sitges e il Fantasia, laddove ha raccolto consensi e riconoscimenti, ai quali si vanno ad aggiungere anche le candidature ai César e agli European Film Awards.
Un percorso di tutto rispetto non c’è che dire per un esordio la cui fruizione non può lasciare di certo indifferenti dato l’elevato coefficiente di violenza che si riversa sullo schermo, poiché è la violenza stessa a essere protagonista della vicenda narrata non solo visivamente in quanto atto, ma anche concettualmente e metaforicamente sul piano tematico e contenutistico. La storia è quella di Vincent, un architetto che trascorre la sua vita in modo pacato e privo di qualsiasi sorpresa fino a quando improvvisamente nel corso di una notte si ritrova aggredito da persone sconosciute senza un apparente motivo. La gente lo vuole morto e, nonostante l’uomo cerchi di continuare a condurre una vita normale, il fenomeno si diffonde a macchia d’olio e sempre più persone provano a ucciderlo. È così che Vincent si ritrova al centro di una folle spirale di violenza ed è costretto a fuggire, cambiando completamente il suo modo di vivere. Ma si può fuggire dal proprio nemico, se questo nemico è il mondo intero?
Come e se ci riuscirà lo lasciamo alle due ore circa di un film che da dramma cambia improvvisamente pelle e caratteristiche genetiche innestando nel proprio DNA elementi horror e sovrannaturali. Il risultato è survival-fanta-horror che sembra mescolare senza soluzione di continuità lo zombie-movie alla Romero e di ultima generazione al Carpenter di Essi vivono. Con e attraverso questo mix di generi l’autore cattura la febbrilità dei giorni nostri per dare forma e sostanza a una metafora della violenza all’opera nella società francese (e non solo) post pandemia. Questa in un clima che si fa via via sempre più apocalittico assume le sembianze di un vaso di Pandora pronto da un momento all’altro a implodere, liberando tutto il male, la rabbia, l’aggressività e la violenza gratuita imperanti, oltre alle paure, i problemi, le paranoie e le ossessioni contemporanee legate alle guerre, al burnout, al terrorismo, ai complotti, all’inflazione e alla povertà. A farne le spese è un uomo qualunque che diventa suo malgrado la preda e la vittima sacrificale dei e per i suoi simili, sul quale si riversano odio, frustrazioni e violenza. Il suo corpo si trasforma così un bersaglio sul quale sfogarsi, da colpire ed eliminare senza nessuna pietà, ma sopratutto senza motivo.
Sta qui la metafora che Castang prova e riesce a trasferire sullo schermo mediante l’odissea di Vincent, il signor Rossi di turno, nei panni dei quali troviamo un Karim Leklou perfettamente a suo agio in un tipo di ruolo con il quale si era già misurato in passato. L’attore francese non è nuovo a personaggi comuni coinvolti in disavventure che vanno al di là della sua comprensione. Lo ricordiamo infatti in Coup de chaud di Raphaël Jacoulot, nel quale interpretava Joseph, un giovane figlio di gitani con qualche disturbo comportamentale che viene additato come capro espiatorio dalla comunità bigotta nella quale vive. Il ché lo ha ha reso credibile dall’inizio alla fine, anche quando dalle parole si passa ai fatti e sullo schermo scoppia la violenza dura, cruda e brutale come nelle scene delle aggressioni in ufficio da parte dei colleghi del protagonista, quella da parte del vicino della casa in campagna all’interno della fossa biologica e nel tutti contro tutti sul tratto autostradale.
Dove invece Vincent deve morire perde pezzi e convinzione dei propri mezzi è nella traccia sentimentale che il regista di Versailles e i suoi compagni di scrittura, Mathieu Naert e Dominique Baumard, hanno inserito con eccessiva prepotenza nella linea orizzontale del racconto. La storia d’amore tra il protagonista e Margaux (nulla da dire su colei che la interpreta, ossia la brava Vimala Pons, anch’essa in parte), cameriera di un ristorante in fuga dai creditori, finisce con il monopolizzare un po’ troppo l’attenzione andando a toglierla alla componente più riuscita del plot, vale a dira la commistione di generi di cui sopra. Un dosaggio più attento ed equilibrato dell’ingrediente amoroso all’interno della ricetta sicuramente avrebbe impedito questa problematica.

Francesco Del Grosso

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