Drammatica spensieratezza
Quattro amici. La giovinezza. La spensieratezza. La fine degli studi. Tanti sogni per il futuro. E poi, la morte improvvisa – durante un bombardamento a Beirut – di uno di loro. La fine di importanti legami e, in seguito, la voglia di ricominciare e di ritrovarsi. Non è un semplice road movie, Viaggio da paura. Al contrario, quello che il regista Alì F. Mostafa (conosciuto al grande pubblico principalmente per City of Life) vuole raccontarci è innanzitutto la storia di una grande amicizia e del suo evolversi nel corso degli anni, oltre alla singolare commistione di tre differenti culture che vengono a contatto tra loro e che, proprio grazie ad importanti sentimenti in gioco, riescono a trovare validi punti d’incontro.
I protagonisti sono tre amici: Omar –insegnante di educazione fisica che a breve diventerà papà – Ramy – aspirante giornalista freelance orgoglioso dei suoi 737 followers su Twitter – e Jay – DJ squattrinato oppresso dalla dispotica figura paterna. I ragazzi decideranno di partire per Beirut, al fine di visitare la tomba del loro amico Hadi. Tra situazioni al limite del surreale e rocambolesche avventure, i giovani avranno modo di rafforzare ancora di più il loro rapporto, oltre ad imparare a conoscere sé stessi.
A metà strada tra il classico road movie irriverente, scanzonato e – spesso e volentieri politically scorrect – che tanto successo ha avuto negli Stati Uniti, e tra il prodotto crudo e realistico tipico della cinematografia mediorientale, il lungometraggio di Mostafa vede il regolare alternarsi di due diversi registri – dal comico al drammatico – fotografando con fedeltà e senza eccessivi buonismi tante diverse culture a stretto contatto tra loro, con tutta la drammaticità della guerra sullo sfondo.
Onesto, sentito, ma allo stesso tempo ironico e spensierato, Viaggio da paura ha dalla sua il fatto che, nonostante la grande attualità e l’imponenza dei temi trattati, un certo distacco abbia fatto da grande protagonista durante la lavorazione stessa, evitando, quindi, di rendere il prodotto eccessivamente autocommiserante e ricco di forti stereotipi. Allo stesso modo, gli interpreti si sono dimostrati perfettamente all’altezza dei ruoli loro assegnati, cambiando di volta in volta registro, ma senza mai andare sopra le righe e mantenendo – per tutta la durata del lungometraggio – una soddisfacente credibilità.
Eppure sono, a volte, proprio questi cambi di registro a creare problemi a livello di scrittura. Essendo, infatti, spesso e volentieri, pericolosamente repentini, non sempre mantengono la necessaria linearità richiesta, ma fanno sì, al contrario, che determinate scene risultino eccessivamente finte, artefatte, oltre che decisamente poco coinvolgenti. Lo stesso si potrebbe affermare per quanto riguarda le numerose gag presenti nel film: interessante l’idea di alleggerire il tutto con qualche elemento comico, ma in questo caso, gli espedienti scelti risultano visti e rivisti, al punto da diventare quasi prevedibili. Peccato, perché per la sua onestà e per lo sguardo ingenuo e smaliziato allo stesso tempo, questo ultimo lavoro di Mostafa avrebbe potuto avere una riuscita di gran lunga migliore.
Detto questo, comunque, ci troviamo in ogni caso davanti ad un prodotto singolare nel suo genere, che – proprio per la personale lettura della società qui raccontata – senza dubbio merita, da parte dello spettatore, una certa fiducia.
Marina Pavido