Un viaggio nell’identità
Non è bene bere prima che un uomo beva.
Non è bene fumare.
Non è bene imbracciare un fucile.
Non è bene parlare prima che un uomo parli né andare da sola nei boschi senza un uomo.
Non è bene scegliere il marito.
Non è bene svolgere i lavori degli uomini.
Non è bene guardare un uomo pensando che non abbia ragione.
Non è bene scegliere prima che un uomo scelga.
Sono queste le parole, anzi i diktat, presenti nel kanun, il più importante codice consuetudinario albanese e che, da almeno duecento anni, regola la vita sociale nelle zone più arretrate dell’Albania, in particolare quella settentrionale. Vergine giurata, opera prima di Laura Bispuri, ispirato all’omonimo romanzo di Elvira Dones (edito da Feltrinelli, 2007), ci fa addentrare in un mondo che confina con noi, ma che ci appare anni luce lontano e la stessa costruzione frammentaria della storia ha sullo spettatore un effetto straniante. Soprattutto nella prima parte della pellicola, infatti, si è quasi disorientati, in bilico tra un presente e un passato avvolti quasi da una nube, da quel non detto che pian piano si chiarirà (e mai del tutto). La nostra protagonista la conosciamo come Mark (un’Alba Rohrwacher molto credibile), ma il suo vero nome è Hana: questa non è la storia di un gender, di un’operazione da donna a uomo, ma è la negazione dell’identità di donna per essere accettata e poter essere alla pari – come diritti – dell’uomo in una cultura arcaica.
Quella sensazione iniziale che si avverte immaginiamo che sia ben voluta, è come se la regista, con gli ambientali o le scene legate alle abitudini di quelle zone, ci voglia far localizzare subito sia nel territorio che in quella cultura, per poi delicatamente farci entrare nella vita di Hana che diviene Mark. Il pubblico vive parallelamente alla donna la confusione che, nel presente, la sta interrogando, andando a minare quelle “certezze” dovute all’educazione e, anche, a una forma di gratitudine (ma non vogliamo svelarvi altro). Il viaggio fisico verso l’Italia, dove ritrova un rapporto fondamentale, quasi più forte del cosiddetto legame di sangue, s’interseca con quello a ritroso dando vita a uno strano corto circuito di formazione.
Colei che sceglie di diventare vergine giurata (in originale “burnesha”) sfrutta il diritto di proclamarsi uomo, ciò significa che la condizione imprescindibile è la totale astensione dalla vita sessuale, veste i panni da uomo, si comporta tale ed è solo così che può arrivare dove la donna in quella società, è esclusa. Ma è davvero una scelta? È questa una delle domande che Vergine giurata ci pone: quanto questa decisione è voluta o sottilmente indotta? Con il salto nell’infanzia e nell’adolescenza di Hana emerge un particolare rapporto in quella che diventa la sua famiglia, ma anche di queste dinamiche non vogliamo parlarvi molto, perché è proprio attraverso alcune scene ad esse legate che si può sfiorare la sua anima, percepire quello che le sia balenato anni prima e cosa stia provando nell’oggi. Si sente come dietro la macchina da presa ci sia una donna che con tatto e, al contempo, rigore mette in quadro anche le fisicità (dalle location ai dettagli del corpo) con uno stile documentaristico e di un obiettivo che “sta addosso” senza offuscare – particolarmente suggestive sono le sequenze in acqua e quelle in cui cui Hana fa i conti con il suo corpo.
Dopo esser stato presentato in concorso all’ultima Berlinale, il lungometraggio di esordio della regista romana arriva nelle nostre sale il 19 marzo e siamo sicuri che offrirà degli spunti che potranno far incuriosire chi lo andrà a vedere, stimolando davvero quell’idea di vedere “l’erba del vicino” ancora troppo conosciuta; per poi riflettere, a livello più universale, sull’identità – intesa come genere, ma anche come cultura e società – e sulla libertà.
Maria Lucia Tangorra