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Van Gogh – Tra il grano e il cielo

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VOTO: 5.5

Per un pugno di girasoli

Di fronte ai tanti documentari d’arte che in questi anni hanno arricchito sensibilmente la programmazione delle sale italiane una raccomandazione è d’obbligo: correte comunque a vederli, perché il loro valore divulgativo è fuori discussione. Qualche distinguo però va fatto. Se negli ultimi tempi ci eravamo imbattuti in ottimi prodotti, talvolta anche innovativi come nel caso di Caravaggio – L’anima e il sangue del cineasta messicano Jesus Garces Lambert, o comunque molto curati a livello filologico e orientati verso una detection avvincente, come riscontrato ad esempio in Hitler contro Picasso e gli altri, la resa cinematografica di Van Gogh – Tra il grano e il cielo ci è parsa in compenso un po’ deludente. Tra le ragioni profonde del nostro scetticismo vi può essere, molto banalmente, il ricordo ancora fresco di Loving Vincent, omaggio decisamente più poetico e originale alla sublime arte del pittore olandese. Ma c’è dell’altro, come vedremo.

Trattandosi di un documentario artistico è strano dirlo, ma un notevole motivo di perplessità è rappresentato qui dal “casting” poco felice. Il parallelo col più riuscito Hitler contro Picasso e gli altri si impone anche per via di una scelta narrativa forte. Lì la presenza di Toni Servillo, quale Caronte in grado di traghettare lo spettatore verso le sponde di una storia affascinante e complessa, quella delle grandi opere trafugate dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva funzionato a dovere. L’attore era parso molto a suo agio nel ruolo. Coi suoi modi compassati, magnetici, ma senza strafare. Lo stesso non si può dire dell’attrice chiamata a introdurre alcuni passaggi della biografia e dei processi creativi di Van Gogh. Nella circostanza Valeria Bruni Tedeschi, invece di agire sottotraccia, si è sovrapposta al sentiero per lei tracciato con malcelato narcisismo, declamando la parte assegnatale come a teatro, con un atteggiamento enfatico che può lasciare nello spettatore più sensibile l’impressione che stia parlando di sé, del suo rapporto con la creazione artistica, più di quanto non stia descrivendo in realtà il sofferto percorso esistenziale del geniale pittore.
Fatta questa premessa, ad ogni modo necessaria, il documentario scritto da Matteo Moneta e diretto da Giovanni Piscaglia sembra incanalarsi, per lunghi tratti, su un binario più convenzionale. Non eccelso a livello filmico ma sostanzialmente corretto. Ci restituisce insomma uno spaccato discretamente valido della vita e delle opere di Van Gogh, ripercorrendo agilmente i suoi tormentati passi. C’è però un elemento che ci ha positivamente colpito e che in fondo caratterizza il film: lo spazio concesso, in parallelo, all’appassionante vicenda umana di Helene Kröller-Müller, facoltosa collezionista cui gli amanti dall’arte devono tantissimo, per il suo pluridecennale impegno nel raccogliere quelle opere dell’artista olandese che ora si trovano nel museo a lei intitolato. Ed oltre a essere meritevole di essere tramandata, la storia in questione ci testimonia anche l’interessante spostamento prospettico, in base al quale alcuni tra questi documentari non si concentrano più soltanto sul punto di vista di chi l’arte la crea, ma anche sullo sguardo partecipe di chi, consapevolmente, ne usufruisce e ne trae giovamento.

Stefano Coccia

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