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Valley of Shadows

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VOTO: 7

Pleniluni scandinavi

Nella remota campagna norvegese crescere appare impresa assai ardua. Soprattutto se sei un bambino sotto i dieci anni d’età, hai solo tua madre come punto di riferimento e un fratello maggiore devastato dalla tossicodipendenza. In più, qualcuno o qualcosa si aggira per i pascoli dei dintorni massacrando bestiame; e gira voce che possa trattarsi addirittura di un licantropo…
Valley of Shadows, esordio nel lungometraggio, dopo qualche corto all’attivo, del regista norvegese Jonas Matzow Gulbrandsen, è la classica fiaba dark densa di suggestioni archetipiche che racconta un’importante fase di passaggio nella vita di Aslak, il piccolo protagonista. La foresta, dove dovrebbe annidarsi la creatura mostruosa di cui sopra, rappresenta l’ancestrale ignoto, l’ombra che deve essere sfidata per potere passare alla tappa successiva della propria esistenza. Aslak si addentra all’interno di essa, prima con un suo compagno di giochi, poi con il proprio cane, il quale però fugge via. Come sempre in racconti a carattere gotico di questo tipo, la selva – peraltro dall’aspetto assai minaccioso – simbolizza altro. Le paure verso un autorità paterna da Aslak mai avuta, l’assenza del fratello che riempie di dolore il cuore della madre. Lì Aslak, dopo essersi perduto, incontra una strana figura, che afferma di non essere lo sterminatore di pecore ma mantenendo la propria identità nel mistero. Dopo una notte passata nel suo rifugio, l’uomo riconsegna Aslak al fiume nella direzione opposta, riportandolo così verso la strada di casa.
Valley of Shadows vive di sensazioni tattili, di atmosfere cupe e opprimenti piuttosto che di una narrazione lineare. Il fatto che esista oppure no il licantropo interessa meno di nulla al regista e sceneggiatore, visibilmente più proteso a sposare senza riserve lo sguardo infantile nei confronti di una realtà dai contorni continuamente fuggevoli e perciò incomprensibili. Osservato in questa chiave, Valley of Shadows – presentato nella Selezione Ufficiale della dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma – è senza dubbio un’opera riuscita, molto aiutata anche dalle significative location utilizzate. Nel suo percorso Aslak mette spesso in serio pericolo la propria esistenza senza, ovviamente, nemmeno rendersene conto. Se tutto questo aumenta la suspense in chi guarda, nondimeno illumina sull’autentico significato di trascorrere una vita all’insegna della routine e della solitudine: la droga, per il fratello di Aslak, e la corsa simbolica verso un non meglio identificato ignoto per Aslak stesso possono costituire due possibili soluzioni di fuga nei confronti di una situazione borderline ai limiti della disperazione più assoluta. Dispiace magari un po’ che la mancanza di un budget più consistente – ipotizziamo, come ovvio – abbia impedito a Jonas Matzow Gulbrandsen di concedere maggiore forza alla parabola raccontata, impedendo al passaggio di Aslak nella foresta di assumere i toni concreti di una simbolica prima escursione dentro gli orrori della vita. Resta però intatta la bontà dell’idea, realizzata attraverso i consueti ritmi meditativi che appartengono di diritto al cinema scandinavo contemporaneo, guardando da vicino al Tomas Alfredson di Lasciami entrare (2008) ma anche alla mitopoiesi, certamente epurata di qualsiasi forma di violenza esasperata, del Nicolas Winding Refn di Valhalla Rising (2009).
Trattandosi di un’opera prima, per Valley of Shadows ci pare oggettivamente tutt’altro che poco.

Daniele De Angelis

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