Conversazione con Renato Scarpa e Giacomo Rizzo in occasione della 13esima edizione del Salento Finibus Terrae
Per questa pubblicazione abbiamo preso in prestito il titolo di uno dei romanzi più famosi di Luigi Pirandello, ossia Uno, nessuno e centomila, non perché vi siano analogie fra il destino infausto del suo protagonista (Vitangelo Moscarda) e quello dei due attori che abbiamo avuto il piacere di intervistare in queste pagine, ma per il significato o i significanti che il suddetto titolo può evocare nella mente di un lettore. L’attore, infatti, deve per mestiere indossare delle maschere, diventare altro e nell’arco della propria carriera passata tra set e palcoscenici è chiamato a interpretare innumerevoli ruoli. Tuttavia, negli ultimi anni si è palesata la cattiva tendenza che vuole registi, produttori e soprattutto casting director affidare ruoli fotocopia sempre agli stessi attori, schiacciandoli e indirizzandoli verso i medesimi personaggi, film, generi e plot. Caratteristi della “vecchia guardia” come Renato Scarpa o Giacomo Rizzo, che hanno fatto della bravura e soprattutto della versatilità i geni dei rispettivi dna professionali, appaiono di fatto nel panorama nostrano come degli “alieni” o come “animali in via d’estinzione”. Fortunatamente, le stagioni trascorse e le lunghe carriere alle spalle, che hanno permesso loro di spaziare senza soluzione di continuità tra teatro, piccolo e grande schermo, hanno scongiurato il pericolo, ossia quello di scivolare nelle sabbie mobili di una tendenza che ha fatto calare il sipario sulle carriere di moltissimi altri colleghi. Ed è da qui che vogliamo partire, per poi allargare il discorso al racconto del presente, del passato e del futuro, in questa chiacchierata in loro compagnia raccolta in quel di Fasano durante la 13esima edizione del Salento Finibus Terrae.
D: Qual è l’incontro, l’esperienza o la persona che ha rappresentato per voi un cambiamento o una svolta umanamente e professionalmente?
Renato Scarpa: Ho frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e all’epoca mi avevano preso con una delega poiché ero ventiseienne, ossia un anno in più rispetto al termine massimo di età. Dunque, ho iniziato molto tardi a fare l’attore. Per quanto mi riguarda, è stato fondamentale l’incontro con Nanni Loy, la figura che mi ha aperto la mente, ma con il quale non ho però mai lavorato. I suoi insegnamenti durante quegli anni di studi sono stati importantissimi e mi hanno lasciato moltissimo. Ad esempio, ci metteva davanti a uno specchio per guadare le nostre facce, così da capire come venivamo ripresi dalla macchina da presa e poi proiettati sullo schermo. Ho scoperto così la “recitazione di doppio piano”: con gli occhi si dice una cosa e con la bocca un’altra. In questo modo, quello che dici in realtà lo hai già pensato e trasmesso con gli occhi. Tale capacità permette all’attore di rendere partecipe lo spettatore nel capire cosa stai realmente provando, prima che tu sia costretto a esprimerlo a parole. Questi insegnamenti e questo tipo di recitazione mi ha aiutato moltissimo a entrare nei tanti personaggi che ho interpretato sino a questo momento e ha scegliere i registi con i quali ho lavorato. Devo, però, ammettere che, oltre alla passione che avevo e che continuo ad avere per questo mestiere, un fattore determinate per me è stata la fortuna. Lavorando al Piccolo Teatro di Milano ho avuto modo di conoscere Marco Bellocchio che mi chiese di fare una parte nel suo “Sogno di una notte di mezza estate”, ma io follemente rifiutai perché non mi sentivo pronto ad affrontare un testo così impegnativo, per cui a malincuore gli dissi di no. Avevo paura di deluderlo e che mi iniziasse ad odiare per averlo deluso interpretando male il personaggio che aveva pensato di affidarmi. Per questo preferisco che mi odino per aver rifiutato una parte, piuttosto che deludere un regista per non averlo interpretato al meglio. Ma la fortuna volle che poco dopo girò Nel nome del padre, feci il provino e mi prese e da lì iniziò la mia lunga carriera ecclesiastica al cinema che mi ha portato sino al papato.
Invece, per quanto riguarda l’incontro che mi ha più segnato, senza alcun dubbio quello con Massimo Troisi. Quello con lui è stato un incontro con il destino meraviglioso. Massimo mi aveva visto in Un sacco bello e mi volle l’anno successivo per interpretare Robertino nel suo Ricomincio da tre. Poi volle a tutti i costi che recitassi al suo fianco ne Il postino di Michael Radford. Io gli dissi che non ero adatto, perché era un film ambientato nel meridione. Del resto, cosa ci faceva un milanese come me a Procida? Lui mi rispose che dovevo sentirmi come un comunista mandato lì per punizione. Mi bastò quella risposta per accettare. L’aver conosciuto Massimo e aver avuto la possibilità di lavorare con lui sono stati dei regali che mi ha fatto la vita. Stare al suo fianco in un momento così difficile della sua vita è stato per me un onore. Eravamo tutti per uno e uno per tutti. Io e il resto delle persone che abbiamo lavorato a quel film abbiamo avuto la possibilità di dimostrargli quanto lo amavamo e lo stimavamo. È stato un regalo per noi tutti, perché lui era una persona di rara semplicità e forse la vita è proprio un viaggio verso la ricerca della semplicità.
Giacomo Rizzo: L’incontro che mi ha cambiato la vita è stato forse quello con Pier Paolo Pasolini. Ho avuto questa bella fortuna di conoscerlo facendo Il Decameron e con lui è nata una bella amicizia. Fu proprio lui che mi propose a Sergio Citti per fare un episodio di Storie scellerate. Faccio una parentesi: ci tengo a dire che Sergio per me è stato un grande regista, non a caso ha firmato un film meraviglioso come Casotto, ma era anche un uomo molto intelligente e sensibile. Non ha riscosso il successo che meritava, forse perché molti facevano più riferimento al fratello Franco, scoperto anche lui da Pier Paolo. Quello per me fu un periodo d’oro, perché ebbi la possibilità di fare una piccola parte in un film di Billy Wilder, ossia Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, una commedia brillante che però in Italia non ebbe molto successo, passando in sordina perché non fu capita dal pubblico e dagli addetti ai lavori. Dunque, la grande occasione non è stata tanto l’aver girato Il Decameron, piuttosto l’aver conosciuto un uomo così complesso e controverso. Lui era una di quelle persone che vivono ogni giorno la morte mentre vivono. In lui sembravano coesistere due tipi di persone: da una parte la fragilità e i timori reverenziali che gli venivano dai retaggi familiari, dall’altra la voglia di mescolarsi con le gente comune. Per cui, è come se ci fosse stata una sorta di guerra interiore in lui. Non frequentava la gente del cinema, non amava circondarsi di quelle persone. Viveva la sua omosessualità non negli ambienti borghesi e aristocratici, ma fra la gente del popolo, quella schietta, volgare, non il popolino. Ne era profondamente affascinato. E questa attrazione è stata il motivo della sua fine, una fine sulla quale preferisco non pronunciarmi. Per me Pasolini è e resterà un sogno.
D: L’essere dei caratteristi e la grande versatilità che vi caratterizza come attori ha contribuito secondo voi a fare in modo che la vostra carriera andasse avanti negli anni?
Giacomo Rizzo: Immodestamente mi piace pensare a me come un’artista e non solo come a un attore. Prima di tutto perché il desiderio di fare questo mestiere nasce da giovanissimo, a sette anni. Da quel momento non mi sono più fermato, ero fortemente motivato e volevo fare sempre cose diverse. Ho iniziato con uno spettacolo di varietà, recitando nei piccoli teatri di provincia, per poi passare a fare il cantante nei night club, il ballerino e persino il presentatore di feste di piazza. Per cui, laddove mi si chiedevano cose che pensavo di non riuscire a fare, accettavo incoscientemente e mi trovavo stranamente a saperle fare. Forse quel misurarmi con cose completamente diverse ha contribuito a farmi crescere artisticamente e a diventare un artista completo. Questo accadeva in un’epoca dove non c’era ancora la televisione e quindi non si poteva emulare e guardare grandi attori all’opera se non a teatro, dove andavo spesso a rubare con gli occhi. Il teatro poi è diventata la mia seconda casa, l’ho fatto per venticinque anni e continuo a farlo con la mia compagnia e non solo. Al cinema ho fatto sessantaquattro film e indipendentemente da quanto ho lavorato nell’uno o nell’altro, li amo tutti allo stesso modo. E amo tutti i personaggi che ho interpretato. Stessa cosa vale per il teatro. Sono un attore che non fa differenza tra il cinema, il teatro o la televisione. Certo il teatro resta il mio primo grande amore.
Renato Scarpa: Non mi sento di essere un attore, piuttosto una persona che attraverso la recitazione prova a capire la gente. Se la capisco riesco a interpretare anche un Cardinale o a entrare nella mente di un uomo di Potere. Fatto questo, posso diventare chiunque. Sono un “figlio stranito della guerra” come si dice in Sicilia e ho aperto gli occhi su un modo tutto rotto. Ho vissuto la guerra sulla mia pelle e ho deciso di fare questo mestiere per provare a entrare nella testa delle persone e capire perché si uccidono a vicenda. Il mio primo ricordo è proprio un bombardamento e con esso le sensazioni di paura, angoscia, freddo e fame. Il tutto ha modellato la mia personalità dentro e fuori dai set e dai palcoscenici. Ciò mi ha reso meditativo più che reattivo, per cui se non capisco il significato di una cosa, il modo di agire e pensare di un personaggio o dove questo deve arrivare, non riesco a muovermi. Di conseguenza, non riesco a interpretarlo. Il mio essere attore parte proprio da qui, da questa esigenza.
D: Giacomo, hai partecipato a numerose pellicole del ricco filone della cosiddetta commedia scollacciata, hai mai avuto il timore che quel genere di cinema potesse in qualche modo indirizzare la tua carriera e vanificare quel percorso autoriale che avevi sposato precedentemente?
Giacomo Rizzo: Diciamo la verità, noi viviamo e per vivere dobbiamo lavorare. Se in quel momento c’era stata la possibilità di fare quel tipo di cinema, non ho avuto remore a farlo e l’ho fatto con grande impegno. Poi lo faceva anche Renzo Montagnani, che non era un attore chiunque, un grande attore che faceva anche teatro impegnato. Abbiamo fatto un film insieme, Il letto in piazza di Bruno Gaburro, e su quel set abbiamo avuto modo di confrontarci sull’argomento. Un giorno mi disse che faceva quel genere di film perché aveva bisogno di soldi per pagare le cure del figlio che era molto malato. Mi disse che quel cinema gli dava molti soldi e non se la sentiva di rifiutare. Poi alla fine si trattava di commedie divertenti, dove il sesso non si vedeva mai, ma solo donnine nude. Quel tipo di cinema mi ha dato da mangiare e non lo rinnego. Non la penso come il buon Tarantino, ma ritengo quel filone più che dignitoso.
D: A proposito delle etichette, è cattiva abitudine al giorno d’oggi quella di affidare certi ruoli sempre agli stessi attori, cosa ne pensate?
Giacomo Rizzo: Questo per me è un limite, in primis per l’attore. Chi l’ha detto che un attore che ha fatto Gomorra non può fare un altro genere di film, se è un attore vero. C’è da dire questa cosa: negli ultimi anni tanti non attori o presunti tali hanno lavorato molto al cinema e in televisione. Magari gli è riuscita bene un’interpretazione e ha continuato a percorrere quel genere con buoni risultati, ma poi quando si è andato a confrontare con altro si è reso conto da solo che poteva fare solo una tipologia di personaggio e con quello va avanti. C’è poca versatilità negli attori di oggi, tranne rarissimi casi, perché è un’altra epoca per il cinema, un altro mondo in generale. Per questo ho deciso di fare scuola di teatro, proprio per recuperare attori e mantenere viva la tradizione. Attraverso la scuola trovare quelle persone che vogliono fare gli attori e non dei personaggi. Oggi viviamo in un mondo di personaggi, anche il giornalista che fa il TG è diventato un personaggio. Oggi quello sa fare quello e continuerà a fare quello. È un errore, perché godrà di un periodo di grande popolarità e poi finirà nell’anonimato più squallido. Prima, invece, si facevano tante cose, basta vedere la televisione di una volta: perché adesso che guardiamo “Teche teche te” rimaniamo ancora incantati? La risposta è che quelli che ci vengono riproposti erano grandi spettacoli fatti da grandi attori, basta pensare ad Aldo Fabrizi, un attore meraviglioso che sapeva parlare con i silenzi e con le espressioni del viso. Di quegli attori all’epoca ce n’era tantissimi, anche più piccoli e meno fortunati. Oggi non vedo più questo panorama, perché forse la situazione odierna e le occasioni che il mondo dello spettacolo dà alle nuove leve non sono più le stesse. Allo stato delle cose non vedo delle possibilità di cambiamento o forse c’è qualcuno che non lo vuole.
Renato Scarpa: Non penso che sia un problema solo di oggi. All’inizio pensavo di essere monocorde, ma poi sono finito a interpretare un personaggio come il complessato Robertino in Ricomincio da tre di Massimo Troisi. Ho iniziato la mia carriera cinematografica proprio con Bellocchio, interpretando il ruolo di un prete severo e problematico, di conseguenza tutti hanno iniziato a offrirmi ruoli seri, in particolare commissari di polizia che con me non avevano e non hanno proprio niente a che fare. Mi chiamavano solamente per quel tipo di personaggio, colto, altolocato, sprezzante e aristocratico, come ad esempio quello di Colpita da improvviso benessere. Per fortuna, Sergio Leone mi vide ne Il giocattolo di Giuliano Montaldo e capii che ero capace di rilanciare la palla e mi segnalò a Carlo Verdone per fare Un sacco bello. Da lì posso dire che ha avuto inizio la mia galleria di personaggi “pirla”, come si dice a Milano, che mi ha salvato dal dover interpretare solamente ruoli seri e drammatici. L’importante nel nostro mestiere è segnalarsi come a me è successo con Bellocchio. Puoi essere preparato quanto vuoi, aver studiato anni e anni, conoscere la tecnica alla perfezione, ma se nessuno ti offre la possibilità di dimostrarlo, tutto il bagaglio in tuo possesso rimane vano.
Francesco Del Grosso