La tormenta che ti tormenta
Babak Anvari è l’enfant prodige per eccellenza, di quelli nati e cresciuti sotto il segno della Settima Arte. La sua biografia ne è la riprova, con le prime esperienze nel settore che risalgono alla giovanissima età. Anvari ha iniziato la sua carriera da filmmaker in Iran nei primi anni Duemila, completando il suo primo cortometraggio animato all’età di sedici anni. Poi il trasferimento nel 2002 in quel di Londra, dove ha studiato Film and Television Production presso l’Università di Westminster. Nel 2012, Babak è stato nominato come una tra le otto star emergenti del cinema dal Cristal Festival Europe’s Young Directors Forum. Il suo ultimo cortometraggio Two & Two è stato nominato ai BAFTA nel 2011, dopo essere stato proiettato nei principali festival internazionali, riscuotendo un grandissimo successo di pubblico e di critica.
Dopo aver visto la sua pluridecorata (da Neuchâtel a Montclair, passando per Puchon e il Fantaspoa) pellicola d’esordio dal titolo Under the Shadow, presentata in anteprima italiana sugli schermi meneghini nel concorso della 21esima edizione del Milano Film Festival, non possiamo che confermare quanto di buono detto sul suo conto in tempi non sospetti. E la mente torna a chi come lui ha fatto il medesimo percorso professionale, passando dall’essere uno dei tanti giovani di belle speranze al diventare un regista con la “r” maiuscola. Ma più che a Xavier Dolan, che sembra vivere e lavorare su un altro pianeta facendo squadra a sé, forse le analogie più grandi si possono rintracciare nel cammino di M. Night Shyamalan. Il cineasta indiano di adozione statunitense, infatti, prima di accaparrarsi il consenso planetario con Il sesto senso, si era cimentato già dall’età di otto anni con una serie di produzioni brevi in super 8 (per i curiosi basta visitare gli extra dei dvd dei film del cineasta indiano distribuiti nel mercato home video nostrano). Analogie che proseguono anche nella scelta di entrambi di puntare su un genere ben preciso come il fanta-thriller dalle forti tinte orrorifiche per dare il là alle rispettive carriere.
Detto questo, Babak Anvari dimostra di avere una padronanza dell’hardware e una maturità registica al di sopra della media, portando sul grande schermo un’opera prima di straordinaria efficacia tecnica e di indubbio valore drammaturgico. In tal senso, i meriti della riuscita di Under the Shadow vanno equamente distribuiti tra la confezione e il lavoro di scrittura. Le due componenti, infatti, contribuiscono a dare forma e sostanza a un film capace di tenere lo spettatore incollato alla poltrona dal primo all’ultimo fotogramma utile. Ciò è reso possibile da una sapiente costruzione della tensione che latente scorre lungo le vene e le arterie della narrazione, per poi deflagrare sullo schermo con una serie di scene di natura shocker di notevole impatto che fanno letteralmente sobbalzare dalle sedie (una su tutte la finestra infranta dal braccio dello Djinn). Tale tensione, alla quale partecipano attivamente sia le componenti artistiche, attoriali (bravissima la protagonista Narges Rashidi) e stilistiche, gioca sempre sul crescendo e mai sull’accumulo. Questo perché, le suddette componenti lavorano come un sistema di vasi comunicanti, dove ciascuno di essi alimenta e supporta gli altri.
A una prima e più superficiale lettura si potrebbe ricondurre Under the Shadow al classico horror incentrato sul tema delle paure infantili, materializzate attraverso la tipica figura dell’uomo nero nascosto nell’armadio, ossia il “Boogeyman” per antonomasia, protagonista indiscusso di opere standard come ad esempio il dozzinale Intruders di Juan Carlos Fresnadillo o il più convincente The Babadook di Jennifer Kent, dove le creatura malvage di turno si divertivano a disturbare il sonno dei bambini e delle rispettive famiglie. Da parte sua, Anvari prende in prestito gli ingredienti cardine di quel filone, mescolandoli con quelli dell’home invasion, della ghost story e soprattutto del J-Horror. Da quest’ultimo, in particolare, sembra ispirarsi in maniera più evidente, facendo completamente a meno della componente splatter, a favore del lavoro sulla tensione psicologica. Tensione, mista ad adrenalina, con la quale alimenta numerose scene al cardiopalma, come ad esempio quella del missile che centra in pieno il tetto del palazzo rimanendo incastrato e inesploso, costringendo la protagonista a un disperato tentativo di rianimazione dell’anziano vicino di casa. Dal celebre sottogenere orrorifico nipponico prende anche l’inquietudine, le atmosfere claustrali e ansiogene, oltre alle figure demoniache che lo popolano, in questo caso facenti parte del folclore e della religione iraniana, battezzati Djinn: spiriti che viaggiano con il vento e che si fermano a tormentare abitazioni dove c’è paura e tensione; le medesime situazioni che si respirano in quella della protagonista e di sua figlia, perennemente sottoposta a possibili attacchi missilistici. Tali analogie con il sottogenere giapponese si manifestano in moltissime situazioni e dinamiche presenti in Under the Shadow, richiamando alla mente pellicole come Dark Water o Ju-on.
Ma questa, in realtà, è solamente una parte infinitesimale dell’intera architettura drammaturgica dello script, poiché il regista iraniano si è spinto molto più in là, usando i codici e i linguaggi dei generi per trasferire sullo schermo una storia capace di allargare a macchia d’olio i propri orizzonti narrativi e soprattutto tematici. La mente, in tal senso, torna di default al modus operandi della collega e connazionale Ana Lily Amirpour, fresca vincitrice del premio speciale della giuria alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia con The Bad Batch, che nel precedente e folgorante A Girl Walks Home Alone at Night aveva affondato i canini nella Società e nelle contraddizioni del suo Paese natio con un vampyr movie ultra-citazionistico, visionario e trans-genere. È sufficienti, infatti, dare uno sguardo alla sinossi e ai primi minuti della trasposizione per rendersi immediatamente conto che la direzione intrapresa è di ben altro spessore. Come la Amirpour, anche Anvari è dovuto fuggire all’estero e da lì ha potuto dire la propria su una nazione rigida, che è sempre stata poco aperta alle manifestazione artistiche e del libero pensiero. Under the Shadow diventa così l’opportunità di dire e di mostrare, focalizzando l’attenzione su un periodo ben preciso. Siamo, infatti, nei primi anni Ottanta. Mentre imperversa la guerra tra Iran e Iraq, Shideh fa ritorno nella sua Teheran con la speranza di riprendere in mano le redini della propria carriera, interrottasi pochi anni prima durante i moti rivoluzionari del 1978-1979. A causa dei suoi ideali contrari al regime, attribuibili a degli errori di gioventù, come essa stessa tiene a precisare nel tentativo poco convincente di giustificare le proprie azioni a un rappresentante del governo col compito di giudicarla, a Shideh viene preclusa ogni possibilità di costruirsi un futuro. Con il marito lontano da casa, la minaccia delle bombe aeree che incombe e una figlia piccola da accudire, alla donna non resta che trascorrere le giornate chiusa in casa in compagnia delle proibitissime lezioni di aerobica di Jane Fonda in VHS.
Ed è da questa situazione di isolamento e di tragedia imminente che l’esordiente Babak Anvari pone le basi per un film a suo modo sovversivo e imprevedibile che, attraverso gli stilemi sopra elencati, ci parla della storia, passata e presente, del suo Paese d’origine, con i suoi fantasmi celati o rimossi e con il suo desiderio di emancipazione. Il risultato è un’autentica discesa nella follia, umana e politica.
Francesco Del Grosso