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Under Electric Clouds

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VOTO: 8

Il sole (spento) dell’avvenire

Un cinema ostinatamente puntato sul proprio presente quello di Alexey German jr., anche quando parla dell’eredità del passato, persino quando decide di proiettarsi nel 2017, a cent’anni esatti dalla Rivoluzione.
Under Electric Clouds (Pod Electricheskimi Oblakami il titolo originale) è, in fondo, un film distopico e post-apocalittico sorprendentemente a suo agio con un’edizione del Torino Film Festival dedicata ai mondi (purtroppo) possibili (vedi la retrospettiva Cose che verranno).
Non è certo rosea la visione, tanto a breve termine da risultare inevitabilmente puntuale, che German dà della sua Russia, in un discorso sofferto e disilluso che porta, però, con sé i caratteri dell’universalità. Col consueto stile debordante, in una messa in scena pittorica capace di essere onirica e concreta al tempo stesso, tra piani sequenza glaciali e carrellate indolenti, German fotografa una terra desolata, devastata dal capitalismo, dalla globalizzazione e dalla logica del profitto che non ha più memoria dei propri padri, né di nient’altro. Muovendosi tra cantieri e baracche, tra edifici fatiscenti e statue di Lenin abbandonate su spiagge innevate che paiono deserti aridi, lasciate lì a indicare ostinatamente il nulla, sotto un sole oramai nascosto da una foschia livida e perenne, il regista compone una monumentale elegia suddivisa in sette capitoli, in sette storie di umana (r)esistenza interconnesse tra loro, tra rimandi e legami, in una visione circolare senza (quasi) via di uscita.
All’ombra di un imponente grattacielo, bellissimo nella sua arroganza visionaria e desolante nella sua inutilità e incompiutezza, si scontrano, incontrano e confrontano figure di sonnambuli, immigrati senza un linguaggio, eredi milionari, funzionari o artisti che testardamente rifiutano gli interessi del capitale, alla ricerca di un bello che non interessa più a nessuno.
É l’arte allora, dolorosamente, a non avere più valore nel mondo di German jr, un mondo popolato da giovani che hanno dimenticato la Storia e che non sanno che farsene della bellezza, o di un edificio imponente che si staglia in tutta la sua impotenza sopra le loro vite.
Un cinema che riflette su sé stesso e che, con un rigore imperturbabile, a tratti inevitabilmente sfiancante per durata e peso intellettuale, costruisce, lentamente, passo dopo passo, un altrettanto imponente apologo sulla storia, sul presente e sul futuro. Un canto del cigno poetico che, per quanto ostico e stratificato, grida, forte, il suo essere irrimediabilmente necessario. Necessario come dovrebbe essere, sempre, un’opera d’arte.

Mattia Caruso

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