Mitizzando un Mito
Stavolta Angelina Jolie ha badato bene di coprirsi le spalle. Dopo il semi-disastroso esito dell’opera prima di finzione – da lei anche scritta, oltre che diretta – In the Land of Blood and Honey, per il suo secondo film ha scelto di portare sullo schermo l’incredibile epopea esistenziale di Louis Zamperini, basandosi su uno script a più mani opera di nomi a dir poco illustri quali i fratelli Joel ed Ethan Coen, Richard LaGravenese e William Nicholson, tutti al lavoro sull’adattamente del romanzo di Laura Hillenbrand, già autrice del testo all’origine di Seabiscuit (2003) di Gary Ross. Nonché il fondamentale apporto del grande Roger Deakins. fedelissimo proprio dei Coen, come direttore della (ovviamente splendida) fotografia. Con tali premesse di partenza Unbroken non poteva che essere un’opera capace di generare grandi aspettative. Mantenute però in parte ma non del tutto.
Risulta evidentissima la fascinazione assoluta della regista nei confronti dell’unicità del “personaggio” Zamperini. E il film non fa altro che celebrarne una sorta di mitologia terrena per ognuno dei suoi centotrentasette minuti di durata. Ne risulta un lungometraggio girato molto classicamente, in ricordo quasi ossequioso della Hollywood dei tempi che furono. Lo schema è dunque tutt’altro che nuovo: nella prima parte si inquadra il personaggio a livello umano, con brevi flashback sull’infanzia e la propensione per la corsa; quindi si raccontano nel dettaglio le eroiche battaglie aeree che lo hanno visto protagonista nel corso della Seconda Guerra Mondiale, culminanti nell’incidente che ne causò il naufragio e la conseguente, allucinante, deriva per quasi due mesi nell’Oceano Pacifico. Per poi infine narrare il periodo dell’atroce prigionia nei campi di concentramento giapponesi, fino alla fine della guerra e il ritorno a casa. Verrebbe quasi il sospetto, a questo punto, di una sceneggiatura a compartimenti stagni, dove ognuno dei grandi nomi coinvolti potrebbe aver dato il proprio contributo separatamente; tuttavia soprassediamo per mancanza di prove certe. Ciò che risulta invece solare è il fatto che di fronte a cotanto materiale narrativo tratto da vita vissuta, Angelina Jolie pare sin troppo attenta a rispettare le regole del buon “filmone” adatto a tutti gusti. L’ironia arriva provvidenziale a stemperare la drammaticità estrema della deriva in mare aperto, con la mano dei Coen in sede di scrittura a farsi sentire nell’estrema e beffarda paradossalità di una situazione che vede affidata la salvezza dei due naufraghi sopravvissuti – Zamperini e l’amico Phil – al nemico giapponese, prima barca a recuperarli dopo interminabili giorni di stenti. Poi il contenimento del livello di retorica – in libera uscita nell’opera di esordio – in tutto il segmento della prigionia nipponica, quasi una prova sui limiti della resistenza umana posta nella condizione peggiore, quella in cui è impossibile qualsiasi tentativo di difesa fisica e soprattutto intellettuale. Del resto prerogativa della guerra – di ogni guerra – è la disumanizzazione assoluta di aguzzini e vittime; così Unbroken resta fedele a tale assunto un po’ scontato, con pochi colpi di scena ed un solo, isolato, ribaltamento di prospettiva rispetto alla radicalità di un’operazione come quella, ad esempio, compiuta da Clint Eastwood in Lettere da Iwo Jima (2006). Cercato palesemente ma neanche sfiorato, lo stile essenziale del vecchio Clint. Ad ogni modo le sequenze potenzialmente colme di pathos non mancano, in Unbroken, peraltro anche ben orchestrate dalla Jolie. Ciò che risulta purtroppo assente è uno stile univoco di messa in scena, quella visionarietà “spielberghiana” – molti i punti di contatto, anche morali, tra Unbroken e quello straordinario racconto di formazione che è stato L’impero del sole (1987) – in grado di trasformare l’eccezionalità di un’intera vita in epica cinematografica.
Peccato davvero che Unbroken si accontenti del primo grado di fruibilità spettatoriale, risultando al tirar delle somme un film che non annoia mai ma nemmeno compie il difficile salto di qualità verso il grandissimo cinema. Cosa che l’esistenza già di per sé romanzesca di Louis Zamperini avrebbe di certo meritato, ben al di là delle superflue didascalie finali che ci informano come Zamperini stesso abbia trovato nel perdono religioso la propria ragione di vita post-bellica. Fatto questo che era già contenuto nell’essenza di un film incentrato sin dal titolo su una capacità “trascendente” di superare gli orrori di cui l’essere umano è sempre stato perfettamente capace. Non sarebbe stato perciò sufficiente informare la platea del suo ritorno in Giappone da uomo libero, ad incontrare i suoi passati avversari in un mondo finalmente mutato? Il post scriptum in questione sembra quasi il paradigma di un film a cui manca in maniera evidente lo slancio della digressione autoriale per correre veloce come l’atleta olimpico (Berlino, 1936) Louis Zamperini, scomparso nel 2014 a novantasette anni di età. Vissuti come nessun altro.
Daniele De Angelis