Disneyland per (quasi) tutti
Se il cinema di Larry Clark o del primo Harmony Korine è stato sbrigativamente definito provocatorio dalla pigrizia di critici e spettatori solo per fatto di posare lo sguardo cinematografico su un’umanità reietta, pressappoco il medesimo discorso andrebbe fatto per il modus operandi di Sean Baker, anche se il regista newyorkese si è sempre fermato, nella propria filmografia, qualche gradino prima della totale discesa nell’abisso. Eppure un’opera come Un sogno chiamato Florida – titolazione italiana “gemella” dell’originale The Florida Project per il senso di ironico e amaro disincanto che traspare – riveste oggi la medesima importanza dei film dei due autori appena citati, non fosse altro per il fatto che è mutata la percezione di cosa sia realmente oltraggioso mostrare al cinema e cosa no. La “provocazione” (scritto con mille virgolette) di Un sogno chiamato Florida sta tutta nel riprodurre una realtà sotto gli occhi di tutti ma che fa comodo ignorare: rappresentare cioè, con un metodo registico capace di dissimulare quasi per intero la propria presenza, quelle persone che il sogno americano lo vivono dalla parte sbagliata, quella della sopravvivenza quotidiana. Aspetto che il cinema contemporaneo parrebbe aver totalmente dimenticato anche rispetto a quanto accadeva appena una decina di anni orsono.
Nella sua ultima fatica, apprezzata alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2017, Sean Baker pare semplicemente osservare i suoi personaggi alle prese con un’esistenza le cui regole sono dettate da fattori innanzitutto economici, di soldi che non ci sono. E, come suggerisce il titolo, l’ambientazione nella paradisiaca Orlando rende la faccenda ancora più paradossale. Baker catapulta immediatamente lo spettatore in medias res, senza un incipit tradizionale. Ogni cosa è già cominciata prima, la crisi economica dell’era George W. Bush avanti tutto. Da spettatori esterni spiamo le azioni di bambini – tra cui la piccola protagonista Monee, interpretata meravigliosamente da Broklynn Kimberly Prince – allo stato brado, impegnati a fare danni senza colpa proprio per la totale incapacità educativa di distinguere il giusto dallo sbagliato. Esemplare, in questo senso, l’episodio dell’incendio appiccato per gioco ad un complesso residenziale abbandonato a causa, si suppone, del mancato pagamento dei famigerati mutui della bolla immobiliare che scatenò la cosiddetta crisi dei subprime nel 2006. Ma Baker non grida la propria indignazione davanti a tali nefandezze, non calca la mano nel rappresentare la figura di Halley – madre giovanissima di Monee – dedita alla prostituzione nella stanza dove abita con la figlia mentre lei è in bagno. Semplicemente ci mostra tali persona e fatti. Raggiungendo così un effetto ancora più dirompente in chiave drammaturgica. E se non fosse per la presenza di un ottimo Willem Dafoe, unico volto noto nella parte del responsabile del complesso popolare ospitante variegata fauna, saremmo quasi tentati di scambiare Un sogno chiamato Florida per un documentario, talmente elevata è l’immedesimazione di un cast sconosciuto in ruoli da gente comune. Almeno fino al metaforico finale, unico frammento di cinema in cui si avverte un autentico soprassalto autoriale dietro la macchina da presa e che conclude, per modo di dire e al culmine di un crescendo drammatico dannatamente efficace, la vicenda umana di alcuni dei personaggi presi in esame nell’unico non luogo ideale dove le favole, ma anche i sogni e gli incubi perfettamente sovrapposti a seconda del punto di vista, possono trovare una fine: Disneyland.
Peccato dunque che il lussureggiante Walt Disney World Resort di Orlando, Florida sia solo l’inevitabile capolinea di una passeggiata tra le monumentali e metaforiche macerie di un grande paese avente la pretesa di dare lezioni di grandezza a chiunque altro. L’acquisizione di un solido significato socio-politico per Un sogno chiamato Florida si compie allora (in)felicemente tra le righe di un discorso ben più complesso di quanto un pur pregevolissimo lungometraggio cinematografico sia riuscito ad intavolare.
Daniele De Angelis