Non l’avevamo già visto?
Ci risiamo. Pur essendo appena ai primi di dicembre, già da parecchie settimane hanno ormai iniziato a fare capolino sui grandi schermi i numerosi cinepanettoni che – come ogni anno e da molti, troppi anni a questa parte – vengono prodotti al fine di raccogliere un gran numero di spettatori nelle sale che, sebbene consapevoli di vedere ormai lo stesso film da molto tempo, pur di spegnere il cervello per una buona ora e mezza, contribuiscono agli incassi al botteghino di un certo tipo di cinema, che, per forza di cose, andrà inevitabilmente ad oscurare prodotti sì interessanti, ma considerati – purtroppo ed erroneamente – cibo esclusivamente per cinefili raffinati (per non dire addirittura snob). Il cinepanettone di turno, comunque, è Un Natale al Sud, diretto da Federico Marsicano ed interpretato da Massimo Boldi, Biagio Izzo, Anna Tatangelo e Paolo Conticini.
La storia è sempre la stessa: Peppino – carabiniere milanese – ed Ambrogio – fioraio napoletano – si recano insieme alle rispettive mogli nella stessa località turistica per festeggiare il Natale. Neanche a farlo apposta, però, i figli delle due coppie hanno scelto lo stesso villaggio per trascorrere le feste. Qui, i ragazzi dovrebbero incontrare per la prima volta le rispettive fidanzate, conosciute solo virtualmente. Tra gag ed equivoci di ogni genere, tutti, alla fine, avranno modo di capire quali siano i valori davvero importanti nella vita.
Fatta eccezione per la location, per le feste natalizie imminenti, per l’importante ruolo svolto – all’interno dello script – dal mondo del web, degli smartphones e delle chat e per qualche new entry all’interno del cast, questo è un film più e più volte riproposto, in cui i personaggi – così come le scelte registiche adottate – sono sempre gli stessi: genitori che non si rassegnano al fatto di non essere più dei ragazzini, figli adolescenti molto più maturi dei loro stessi padri, una famiglia del nord costretta a “convivere” con una famiglia del sud, l’inevitabile “scontro” tra i due capifamiglia e la solida amicizia tra le di loro mogli. Il tutto condito da una serie di gag viste e riviste – e, diciamolo pure, spesso e volentieri anche decisamente volgari – oltre a un poco velato product placement (in questo caso vediamo addirittura un Paolo Conticini pronunciare il nome del prodotto sponsorizzato guardando direttamente in macchina, ad esempio) che mal si colloca all’interno di una sceneggiatura che già di per sé non si distingue per qualità e che, al contrario, viene sottolineato da una regia più adatta ad una fiction televisiva che poco spazio lascia alla libera interpretazione e che, proprio con l’intento di voler mostrare tutto a tutti i costi, dà vita a immagini “finte” ed a personaggi eccessivamente affettati nei movimenti, tanto da sembrare artificiosi oltre ogni limite e decisamente poco credibili.
Con questo non vogliamo certo sminuire il lavoro degli interpreti e del regista stesso (che di sicuro in altri contesti avrebbe dato il meglio di sé). Il problema è alla base. Va benissimo produrre un certo tipo di cinema – in fondo ognuno ha il diritto di vivere la Settima Arte come meglio crede – ma quando tali prodotti, come già è stato detto, tendono a monopolizzare la maggior parte delle sale cinematografiche a scapito di altri, allora la faccenda si fa grave. E ce ne rendiamo conto quando vediamo che, per la maggior parte delle persone, oggi il cinema è proprio questo – cosa, ovviamente, assolutamente inconcepibile qualche decennio fa, ossia prima dell’inizio del lungo processo di appiattimento delle menti che, al giorno d’oggi, sembra finalmente essere riuscito nel proprio intento.
C’è speranza, in qualche modo, di risalire dal baratro in cui siamo precipitati? La cosa sembra, ora come ora, piuttosto difficile. Triste ma vero.
Marina Pavido