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Un giorno di pioggia a New York

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VOTO: 9

Pensavo fosse amore e invece era una groupie

Ne siamo sempre più convinti: il cinema di Woody Allen è qualcosa di irrinunciabile e salutare. Un elisir di lunga vita per gli occhi, per la mente e per il cuore. Tant’è che il solo fatto di poter partecipare all’anteprima romana del suo ultimo film, Un giorno di pioggia a New York, ci ha fatto sospirare di sollievo, nonché gridare allo scampato pericolo: grazie alla Lucky Red il delizioso lungometraggio potrà finalmente uscire in Italia, dopo una lunga attesa dovuta anche al clima di caccia alle streghe scatenatosi oltreoceano. Riassunto delle puntate precedenti: il “declino dell’impero americano” (parafrasando un altro grande, Denys Arcand) procede a tappe forzate, per cui anche un mostro sacro (fatto passare per mostro libidinoso dai media asserviti) come Woody Allen ha dovuto confrontarsi aspramente con quell’ulteriore follia dello showbiz ribattezzata #MeToo. In pratica una nuova forma di “maccartismo”. Del resto è quanto una società profondamente malata, come quella statunitense, periodicamente ci ripropone…
Vivaddio anche una società del genere qualche salvifico anticorpo ce l’ha ed uno di questi, lo diciamo non senza una punta di sfacciataggine, è proprio il cinema di Woody Allen: quello che in America un mostro (vero) di ipocrisia come Amazon ha voluto tenere bloccato. Per fortuna “noialtri europei” (citando stavolta Gnisci) ogni tanto ci ricordiamo di essere tali e non rozzi usurpatori delle terre dei nativi americani, quindi il film almeno dalle nostre parti si vedrà nelle sale. Di questi tempi è già qualcosa.

Messa da parte per un po’ la (peraltro giustifica) vis polemica, possiamo ora parlare dell’opera. Pur coi suoi alti e bassi, la sempre prolifica filmografia del geniale cineasta pare aver imboccato da tempo due strade parallele, quella che scavalca i confini della commedia introducendo ponderosi temi esistenziali e concedendosi talvolta digressioni o esiti tragici; ed in controcampo il sentiero maggiormente ancorato a quella prassi della commedia intelligente, sofisticata, autoironica, che aveva sancito sin dall’inizio il successo del Nostro. Fermo restando poi che, come ogni confine, anche questo ha qualcosa di arbitrario. Ad ogni modo è di solito conseguentemente a quel primo, provvidenziale detour artistico che si sono manifestati, almeno a nostro avviso, gli spunti più sapidi, taglienti, fecondi, partendo dalla fondamentale cesura che Match Point ha rappresentato nel 2005 per approdare ad esempio al recente, luciferino Irrational Man.
Ecco, con Un giorno di pioggia a New York (A Rainy Day in New York) è invece la commedia brillante di Allen ad essere tornata sugli scudi, perfettamente calata nel presente, ma sospesa al contempo nei topoi ricorrenti del suo cinema e in quella sottile vocazione atemporale, che ha nella Big Apple colorata di ombrelli e costantemente sotto la pioggia il proprio epicentro.
Tutto ciò ci fa doppiamente piacere. Perché vuol dire che questo vulcanico ottantatreenne non ha affatto perso lo smalto, dimostrando qui a suon di dialoghi memorabili, ritmi da vaudeville, personaggi azzeccati e frecciatine al mondo dello spettacolo, che il suo sguardo sulla varia umanità della upper class newyorchese sa essere ancora divertito e penetrante.

Forte di un cast stellare (ma questa non è certo una novità), Un giorno di pioggia a New York trasforma quello che doveva essere il tranquillo e romantico weekend di due fidanzatini (adorabilmente in parte sia Elle Fanning che l’emergente Timothée Chalamet) nella Grande Mela, in una resa dei conti sentimentale dagli sviluppi incerti e dall’esito, per loro forse più che per lo spettatore, inaspettato. Woody Allen ha scelto insomma di giocare sul terreno a lui più congeniale. Ma lo ha fatto con la verve dei giorni migliori, con un mix di garbo e ironia che potremmo azzardarci a definire con una sola parola: classe.
Divertentissimi e intriganti sono infatti i due binari in cui si incanala la narrazione: l’inevitabile confronto dello scapestrato rampollo Gatsby (Timothée Chalamet) col proprio passato e con la ricchissima famiglia, da cui lo stupefacente, meraviglioso faccia a faccia con sua madre (Cherry Jones); ed il rocambolesco susseguirsi di eventi cui andrà incontro la fidanzata Ashleigh (Elle Fanning), giornalista in erba un po’ sprovveduta e un po’ “gatta morta”, la quale all’inizio cercherà di essere il più professionale possibile, nel suo approccio ad alcune star del cinema, per fare poi la figura di una groupie inesperta. Quasi superfluo rimarcare che gli incontri della ragazza con le archetipiche figure del regista in crisi (l’ottimo Liev Schreiber), dello sceneggiatore depresso (un quasi irriconoscibile Jude Law) e del divo arrembante (un credibilissimo Diego Luna) costituiranno alcuni tra i momenti più esilaranti del film, oltre ad apparire quale arguto controcanto dei più abusati cliché hollywoodiani.
Tirando le somme, al netto di una sceneggiatura che in alcuni dialoghi dal retrogusto antologico cita mete recenti della filmografia di Allen (Roma, Parigi) per elevare poi Central Park ad autentico luogo dell’anima, la bravura degli interpreti chiamati in causa (compresi gli irriconoscenti che hanno poi sposato, a suon di donazioni, la causa modaiola del #MeToo) ed il talento di Woody Allen nel forgiare personaggi tutti fortemente espressivi fanno di Un giorno di pioggia a New York gradito ritorno, da gustarsi assolutamente sul grande schermo. Anche per assaporare meglio quel delicato e piovigginoso finale, che non avrebbe sfigurato neppure in un musical di Jacques Demy.

Stefano Coccia

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