Il mondo che ci meritiamo
É tanto ingiusto quanto inevitabile accostarsi alla seconda stagione di True Detective voltandosi continuamente indietro, verso quell’inarrivabile, enorme prodotto che l’ha preceduta e, se vogliamo, partorita. Attraverso gli abissi cosmologici e lovecraftiani esplorati da Matthew McConaughey e Woody Harrelson, l’esordio della serie antologica di Nic Pizzolatto era stato, per il piccolo schermo, una rivelazione folgorante, qualcosa di difficilmente riproponibile ed eguagliabile una volta (auto)esauritasi la sua carica sovversiva. Il principale difetto di questa nuova stagione, dove l’immagine marcia e ancestrale di una Louisiana allucinata lascia il posto alla bruttura corrotta e degradata dei sobborghi californiani e la coppia di detective agli antipodi cede il passo a quattro figure costantemente in bilico tra sconfitta e redenzione, è allora proprio l’impossibilità quasi fisiologica di eguagliare la portata della prima, in un inutile e forzato confronto sempre in agguato tra le pieghe di una vicenda, però, totalmente altra.
Sì, perché al di là di difetti evidenti di sceneggiatura, al di là di scelte di casting discutibili, oltre una regia eterogenea e frammentata (causa l’abbandono della figura del regista unico, uno dei punti di forza della prima stagione) dietro alla nuova, autoconclusiva serie di True Detective c’è l’assunzione del rischio di ripartire da zero, c’è un nuovo mondo ricostruito sin dalle sue fetide fondamenta, un altro universo mitico in cui calare, ancora una volta, esistenze liminali di personaggi memorabili usciti fuori direttamente dal nostro immaginario collettivo.
Accantonate suggestive derive allucinogene, inquietanti risvolti esoterici e ipnotici monologhi nichilisti, complice il cambio di ambientazione e un intreccio dagli echi fortemente chandleriani, il nuovo True Detective, sin dalla prima puntata, si dimostra esattamente per quello che è: un noir potente e suggestivo come non se ne vedevano da tempo.
Attorno all’intricato omicidio di un politico locale, coinvolto in affari loschi e in frequentazioni scabrose con i potenti della piccola e corrotta cittadina industriale di Vinci, si stagliano le esistenze dolenti di individui autodistruttivi in costante lotta con sé stessi, padri degeneri in cerca di assoluzione (come un Colin Farrell sfatto e monocorde che, paradossalmente, finisce col rivelarsi il personaggio più convincente dell’intera serie), figli che scontano le colpe dei padri, peccatori incalliti in cerca, ancora una volta, di un appiglio per non affogare.
In continuità con la poetica di Pizzolatto, True Detective resta una storia di personaggi, coi loro fantasmi, i loro tormenti, le loro ossessioni a tracciare una parabola forse formativa, forse di definitiva disfatta, mentre sullo sfondo si consuma, tra un pervasivo e onnipresente senso di morte, l’ennesima apocalisse che allunga i suoi tentacoli su una società senza speranza, insinuandosi tra le trame di un potere cannibale e spietato.
E poco importa se un caso eccessivamente complesso rischia di collassare su sé stesso, tra false piste e complotti più che mai confusionari, se la caratterizzazione di alcuni personaggi a tratti lascia a desiderare (il potenzialmente complesso Woodrugh di Taylor Kitsch) e lo sviluppo di una trama mai così pretestuosa spesso accelera senza la dovuta attenzione per i dettagli. Rispolverando una tragicità sofferta e a tratti epica, senza tralasciare picchi estetici degni di David Lynch e un pessimismo impregnato dei romanzi di James Ellroy, True Detective, al di là dei suoi non pochi difetti, si riconferma una delle serie più suggestive degli ultimi anni, storia di atmosfere e di esistenze boccheggianti che, con il loro pesantissimo fardello, cercano, per l’ennesima volta, un disperato barlume di speranza in una terra dove il Re Giallo domina ancora impunito e incontrastato, più spietato e potente che mai.
Mattia Caruso