In favelas
Sembra che qualcuno ha disdegnato loro il cielo
Negli occhi brilla l’odio e nelle vene scorre il gelo
Nati tra ingiustizie, tra rifiuti ed immondizie
Prima ancora di acquistarla han già perso dignità
I Nomadi, “In favelas”
Quando si tratta di puntare con decisione all’emotività del pubblico, “mister Billy Elliot” non fallisce mai un colpo. E lo diciamo, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, senza far ricorso a un occhio particolarmente critico, ma al contrario manifestando una punta di simpatia per questa capacità di calamitare l’attenzione degli spettatori più sensibili. Un po’ perché il cinema di Stephen Daldry si pone spesso dalla parte giusta, ovvero dalla parte degli ultimi e degli emarginati. Un po’ perché in quest’epoca di post-modernismi e di racconti labili, per niente ancorati a un tessuto sociale vivo, si avverte ogni tanto la necessità di tornare alle narrazioni forti. Un qualcosa che Trash indubbiamente è. Non ci sorprende, pertanto, che al Festival di Roma il film abbia avuto lusinghieri riscontri, vincendo nella sezione Gala e ottenendo il Premio Speciale della Giuria nella parallela competizione di Alice nella Città. Per introdurlo sommariamente abbiamo parlato di “narrazioni forti”, scomodando così una categoria di pensiero alquanto fluttuante, sebbene impegnativa. In realtà le riprese di Trash, pur prestandosi allo scorrere veloce di una storia intensa, appassionante e robusta, non abdicano stilisticamente a qualche piccolo elemento di trasgressione: tale ci è sembrato il raccontarsi alla videocamera dei tre ragazzini delle favelas, per quanto motivato anch’esso a livello diegetico.
Se si escludono queste brevi parentesi, che creano un parziale e proficuo straniamento, il racconto cinematografico partorito da Stephen Daldry procede a gran velocità verso il suo scopo: la celebrazione di un sussulto di dignità (e di embrionale ribellione) nelle più disgraziate favelas di Rio, accostata alla denuncia della corruzione e dei metodi brutali in uso presso la polizia e presso i più viscidi rappresentati del potere politico ed economico. Niente di particolarmente nuovo, purtroppo, sotto i cieli latinoamericani. Ma raccontato molto bene e con una lettura attenta dei diversi spazi che compongono la megalopoli brasiliana. Adattamento del romanzo pubblicato nel 2010 da Andy Mulligan, Trash è una sorta di thriller (socio)politico che parte subito in quarta, con le rivelazioni su un amministratore locale corrotto messe nero su bianco da un giovane e coraggiosissimo uomo, destinato però a fare una gran brutta fine: il bersaglio della denuncia lo farà braccare e uccidere brutalmente da alcuni sbirri, suoi complici. In questo incipit vorticoso, però, il testimone è stato già passato altrove: venuti casualmente in possesso del portafoglio contenente tutte le informazioni necessarie a portare avanti l’inchiesta, gettato via dall’uomo prima di essere catturato, saranno proprio quei ragazzi abituati a (soprav)vivere in condizioni di estrema miseria a sostituirsi a lui, nella pericolosissima indagine. Prende così il via un’avventura che metterà a rischio sia la loro vita che i già precari equilibri, riscontrabili tra i poveri della favela. Ma solo armandosi di coraggio, determinazione e di un primitivo senso di giustizia, si può provare a cambiare realmente la società in cui si vive…
Stephen Daldry dimostra innanzitutto di saper imporre ritmi incalzanti all’impianto narrativo classico di un film dove la suspance, le estemporanee notazioni umoristiche, la verve genuina degli interpreti (se la cavano egregiamente sia giovanissimi attori non professionisti, pescati in quello stesso ambiente, che interpreti navigati come Rooney Mara e Martin Sheen) e l’impegno civile si fondono, in una simbiosi (quasi) perfetta. Viene un po’ a mancare, d’altro canto, quella cattiveria nella messa in scena la cui impronta si avvertiva forte all’inizio, specie nelle inquadrature dell’uomo torturato o nel selvaggio interrogatorio in auto del ragazzino protagonista, ma che si diluisce progressivamente, lasciando spazio a soluzioni più edulcorate. Sono concessioni un po’ forzate al gusto del pubblico medio, che sottraggono intensità all’opera, ma che non inficiano del tutto la validità dell’operazione cinematografica tentata da Daldry.
Stefano Coccia