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Trafficanti

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VOTO: 7

Miami (Little) Vice

Trafficanti è il classico film-trabocchetto, di quelli che per fortuna Hollywood riesce a realizzare ancora, cogliendo il pubblico in felice contropiede. A leggere i nomi del cast (la coppia di protagonisti Miles Teller, autentico io narrante, e Jonah Hill) e del regista (Todd Phillips), infatti, si sarebbe tentati di prevedere una commedia tinta d’azione, nella migliore delle ipotesi screziata con qualche accento satirico. Al contrario ci si trova di fronte ad un film narrativamente compatto dal respiro persino scorsesiano, al netto dei virtuosismi di regia che possono appartenere di diritto solo al grande autore di Quei bravi ragazzi (1990). E bravo ragazzo, nel senso stavolta letterale del termine, sembra davvero essere David Packouz (Teller), innamoratissimo della bellissima fanciulla acqua e sapone Iz (Ana de Armas) conosciuta da tempo ma con il non trascurabile problema di non avere gran fiuto per gli affari. Almeno finché non si ricongiunge con Efraim Diveroli (Hill), vecchio compagno di liceo in cerca di un collaboratore di fiducia per la redditizia impresa che sta portando avanti: intermediazione per il commercio di armi in tutto il mondo. Siamo a Miami, negli Stati Uniti immediatamente post 11 Settembre – il film è basato su una storia certamente romanzata ma realmente accaduta. E non si stenta a crederlo nemmeno per un istante… – George W. Bush e la sua cricca di potere dettano legge, generando altissimi profitti per coloro che agiscono all’interno del business bellico. Una guerra tira l’altra e dopo l’Afghanistan tocca all’Iraq, con le premesse, gli esiti e le conseguenze a posteriori che tutti oggi sappiamo. Inquadrato in quest’ottica Trafficanti (più esplicito il titolo originale, ovvero War Dogs) possiede in faretra ben più di qualche sporadica freccia(ta) ironica all’american way of life più deteriore che vuole il successo come stella polare esistenziale; il lungometraggio di Phillips diviene sorta di manifesto politico su un passato recente assai pronto a confluire in un prossimo futuro, soprattutto se, come pare possibile in una scellerata corsa tra candidati “sbagliati” che più non si può, un certo Donald Trump dovesse insidiarsi alla Casa Bianca. Esemplare e fortemente esplicativa, in questa chiave, la parabola esistenziale di David, da purissimo American Boy in salsa pacifista a Business Man in armi, determinato con qualche scrupolo soffocato senza molta fatica a sconfinare nell’illegalità. Perché il fascino emanato dal fruscio delle banconote pare davvero irresistibile, come dimostra in modo lampante un lungometraggio impaginato in capitoli ognuno dei quali scandito da una frase che suona come beffardo aforisma, punteggiato qua e là da qualche battuta a vuoto – le parentesi famigliari di David e Iz appaiono eccessivamente melodrammatiche e fuori contesto – mentre l’immancabile (nei film di Phillips) Bradley Cooper compare nella seconda parte e lascia il segno, grazie ad un personaggio capace di riservare ben più di un colpo di teatro. Nonché, nel complesso del racconto, l’amarezza che permea ogni spaccato di vita vissuta.
Allerta a livello massimo dunque; poiché il cinema – un po’ come gli animali in caso di eventi catastrofici imminenti – riesce a fiutare con un certo anticipo l’aria che tira. A dimostrarlo anche la (parzialmente) sorprendente evoluzione artistica di Todd Phillips, uno che per un periodo lungo qualche film – diciamo da Scuola per canaglie (2006) fino all’ultimo sequel di Una notte da leoni (2013), nell’ambito della propria filmografia – ha dato l’impressione di poter ereditare il talento per la commedia sghemba e fuori dagli schemi, sia pur aggiornata alla contemporaneità, che era propria di un John Landis ed invece ora si trasforma nel cantore, in apparenza leggero nei toni ma discretamente spietato nella sostanza, di un’America disposta a sacrificare qualsiasi cosa in nome del traguardo finale. Anche se stessa, se necessario.

Daniele De Angelis

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