Dipendenze letali
In una cittadina della costa, tra Sète e Perpignan, una madre e una figlia segnate da un legame tormentato da disabilità e tossicodipendenza, finiscono invischiate in una vicenda di ricatti legata a un pericoloso sottobosco criminale: la madre, una borghese isolata e solitaria, dovrà prendere le armi per difendere la figlia.
Quella al centro di Tout nous sépare è una storia di malata dipendenza affettiva, nella quale i legami di sangue e quelli extra familiari si tramutano in un ostacolo impossibile da bypassare. Il tutto viene riversato in una dimensione di cinema di genere, con una sinossi intrigante che lasciava ben sperare circa la riuscita dell’opera. Purtroppo non sarà così, perché è sufficiente un 1/3 di timeline per ribaltare la situazione, quanto basta per fare cambiare idea allo spettatore di turno. I restanti 2/3, infatti, non fanno altro che demolire una volta per tutte quelle sensazioni di positività che aleggiavano inizialmente sulla carta. Di fatto, ciò che resta al termine della visione dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Thierry Klifa, presentata nella Selezione Ufficiale della 12esima edizione della Festa del Cinema di Roma, è la certezza di avere assistito a un vero e proprio buco nell’acqua.
La nuova pellicola scritta e diretta dal cineasta francese perde ben presto la bussola, schiacciata dal peso di una scrittura farraginosa, incerta, incapace di mettere a fuoco le situazioni e di tenere insieme tutte le dinamiche narrative e le tematiche chiamate in causa. L’architettura finisce con il crollare perché priva delle colonne portanti, necessarie per tenere assieme il tutto. Ciascun elemento in campo rimane isolato e fa fatica a mescolarsi con il resto. Non esiste nessun collante e si vede. Tutto si regge a malapena e persino la credibilità di quanto scorre sullo schermo viene seriamente messa in discussione sino a perderla in più di un’occasione. A pagare il conto più salato sono i personaggi, che diventano loro malgrado le vittime designate di una scrittura carnefice, alla quale si possono attribuire tutte le mancanze riscontrate. Il disegno appena abbozzato dei loro profili caratteriali, la precarietà dei legami e delle dipendenze nate, sviluppate ed estinte con fin troppa velocità e approssimazione, va di pari passo con la povertà di una regia che non riesce in nessun modo a risollevare le sorti né sul fronte visivo né da quello della direzione degli attori. In tal senso, anche l’altra componente che poteva in qualche modo essere una garanzia di riuscita, ossia il variegato e solido cast capitanato da Catherine Deneuve e Diane Kruger, cade sotto i colpi dei palesi limiti riscontrati nel lavoro di e in primis di scrittura.
Il risultato è un crime dalle tinte noir che prova a strizzare l’occhio al polar old style e ai suoi illustri esponenti (Melville su tutti), ma fallendo su tutti i fronti. I modelli che cita e che prova ad omaggiare appaiono null’altro che un miraggio in lontananza, che Klifa può soltanto continuare a guardare dalla lunga distanza.
Francesco Del Grosso