L’eternità è nelle tue labbra e nei tuoi occhi
Dichiarazione di intenti: ci sono alcune esperienze, alcune persone e alcuni fatti dei quali non si può scrivere se non svincolando le proprie parole dalla granitica teoria e dalla forma colta degli esegeti.
Sono quelle esperienze, quei fatti e quelle persone che, in modi fortuiti, talvolta buffi o struggenti, e più spesso tutto questo insieme, hanno contaminato la tua vita con qualcosa che travalica la possibilità di esplicitare il pensiero, rendendolo fatto concreto.
Del resto è l’arte, e la vita, nel suo dialogo inestinguibile e affatto risolto, con essa, a richiedere cautela quando, orgogliosi e superbi, si tenta di piantare paletti e imporre gabbie teoretiche.
L’afflato sfugge e si tramuta in mille altri soffi nel contatto con le emozioni e i sogni di ciascuno.
Per questo devo affermare: per me Tom Hiddleston non è un attore come gli altri.
Già, ma cosa sono gli attori? Se fossi Bazin, me lo chiederei della Settima Arte, tout court, ma la statura pigmea mi induce a quesiti più modesti e settoriali. Se per qualcuno sono sacchi vuoti da riempire con contenuti già pensati, per me sono coloro che, mutuando, con una metafora ardita, ma mi auguro comprensibile, i concetti da Freud, con la sua Träumerei, e in particolare da Bion, hanno il compito di elaborare l’identificazione proiettiva dello spettatore e restituirci qualcosa che prima era informe, grezzo, in modo che la nostra mente possa farne più matura esperienza cinematografica.
Gli interpreti, corpi magmatici e non marmorei, voci abissali di un profondo che ci turba, o che dovrebbe turbarci, se riusciamo, col loro tramite, ad attingervi, sono allo stesso tempo qualcosa di profondamente indecifrabile, di quasi magico, motivo originario, prima ancora della cesella dei press agent e dei fenomeni di massa, di un fascino che, nei più fulgidi casi, non conosce spazio né tempo.
Gli esordi di questo affascinante interprete inglese, con un cursus studiorum degno di un principe, non sono scindibili dalla carriera di un maestro, ormai Sir, natio di Belfast e trapiantato, da bambino, a Reading, la città che Oscar Wilde giudicava apprezzabile soprattutto se guardata dal finestrino di un treno: Kenneth Branagh.
All’insegna di un coinvolgimento rischioso ed affascinante al tempo stesso, mi è sempre piaciuto immaginare il percorso di Branagh all’interno di un universo ostile, perché rigidamente predeterminato da ragioni di marketing, come quello incarnato dalla Marvel Comics.
Risulta così ancor più sorprendente l’esito della collaborazione, tutt’altro che perfetta, ma neppure pedissequamente conformata alle regole auree del merchandising hollywoodiano.
Mi riferisco ovviamente a Thor, film del quale, lo ammetto, ho avuto l’ardire di dubitare, appena confortata dagli ottimi risulati del cavallo di razza, Robert Downey Jr., anch’egli poco incline, nonostante le molte incursioni nei cosiddetti blockbuster, a etichette e lacci.
Il regista sceglie di orientare la sua disamina attraverso snodi che tentino di individuare le motivazioni profonde e le spinte emotive di personaggi, travalicando, senza però tradirli, iconografia e immaginario originari.
Non si è trattato di un lavoro di ri-scrittura in senso stretto, tanto che ritengo plausibile che gli appassionati del personaggio Marvel abbiano riscontrato ampliamenti di senso più che trasgressioni vere e proprie.
Naturalmente sono il non-luogo di Asgard e le sue dinamiche, queste sì, quasi shakespeariane, ad interessare precipuamente Branagh che sceglie, per il personaggio di Loki, una sua vecchia conoscenza teatrale, televisiva e radiofonica, ovvero il giovane e praticamente sconosciuto Tom, attore dal sorprendente talento che risulta perfetto, anche da un punto di vista somatico, per incarnare il ruolo del dio dell’inganno: voce caldissima e melliflua, corpo magro e nervoso, Hiddleston, diplomato, come il suo mentore, alla Royal Academy of Dramatic Arts (1) e da tempo avvezzo alle scene britanniche – era già stato splendido Cassio in Othello e il dottore Lvov nel riadattamento del dramma di Cechov, Ivanov, ad opera di Tom Stoppard, entrambi per la regia di Michael Grandage – si dimostra duttile strumento nelle mani del ludi magister.
I due avevano già collaborato almeno tre volte (2) : nello stesso Ivanov che vedeva Kenneth Branagh impegnato nel ruolo principale (3) e in Wallander, serie televisiva realizzata dalla BBC, incentrata sui romanzi noir dello scrittore svedese, recentemente scomparso, Henning Mankell. Infine, ancora insieme, per un dramma radiofonico realizzato da Radio 3 BBC e tratto dal Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand: Branagh incarnava il brillante spadaccino-poeta, dotato della memorabile favella, Tom, lo sprovveduto, bel Cristiano, la cui voce è priva di parole (4).
Il connubio, non c’è che dire, funziona a meraviglia e, se l’adesione interpretativa di Kenneth al commissario di Ystad, per raffinatezza espressiva e intensità drammatica, richiama i ricordi al sublime Maigret di Jean Gabin, è Tom Hiddleston a primeggiare nella versione cinematografica di Thor.
Lavorando su un canovaccio che, nelle sue mani, non poteva che strizzare l’occhio a Shakespeare, Branagh stesso rivela: “Riflettendo sugli elementi di Thor mi sono accorto che non c’è niente di più shakespeariano di questa storia che mette in scena padri e figli in competizione, regni contesi e fratelli gelosi, lotte per il potere, faide familiari, solitudini e privilegi, persone pubbliche che fanno i conti con passioni private, tensioni fra l’epico e l’ordinario (5)”.
E in effetti, con il fulcro spostato dalle gesta dell’eroe spodestato alle trame malevole del perfido fratellastro, il regista si spinge fino ai limiti di un parallelismo quasi impossibile.
Loki (6), nemesi del protagonista anche dal punto di vista figurativo, attraverso la scelta cromatica virata all’oscurità e al gelo, diviene quindi, nelle intenzioni di Branagh, una contaminazione fra l’Edmund shakespeariano e il personaggio, pressoché omonimo, della piece di David Mamet (7): la grandezza malevola del primo e il mediocre infantilismo di Edmond si sfibrano idealmente all’interno di una figura tesa alla puerile emulazione fraterna e al compiacimento del padre-patrigno, attraverso la negazione delle proprie origini “mostruose”.
L’iperrealismo umano della tragedia shakespeariana, dove ogni attante diviene colui che deve, semplicemente seguendo il corso naturale dei versi, si intreccia dunque con la realtà insensata e spiazzante della contemporanea alienazione, incapace di ingannare la cinepresa-occhio o troppo effimera per rimanervi catturata.
La dualità del dio dell’inganno non si risolve dunque nella sola, monocorde, patogenesi filiale, e ciò che resta oltre il personaggio di Loki, interpretato da Hiddleston con l’intelligenza di un britannico understatement, ci sembra accessorio corollario alla sua complessità, affascinante poiché impossibile da delineare fino in fondo, nella sua inarrestabile, macabra e paradossale vitalità.
Hiddleston diviene famoso in tutto il mondo e la Marvel ha in serbo per lui e per il suo Loki l’exploit divistico di The Avengers, per la regia di Joss Whedon.
Se dal punto di vista strettamente spettacolare non si può negare a Whedon di aver gestito come meglio non avrebbe potuto, o quasi, un ensemble di caratteri e storie, facilmente proiettabili verso la ridondanza o la fatale débâcle logica, lo stesso non si può dire della complessità di conflitti e intenzioni.
Il meraviglioso Loki di Branagh, qui esplicitamente deriso, in una battuta di Tony Stark, durante un alterco fra i fratellastri asgardiani, proprio per quella potenza quasi shakespeariana che era stata la cifra stilistica della sua precedente incursione cinematografica, viene ridotto, drammaturgicamente, a villain bramoso di potere e di vendetta.
Ma l’afflato cui prima accennavo prende la direzione che il talento vuole ed è Hiddleston, potente e carismatico da attore, come lo è il suo alter-ego marveliano, a rubare la scena e a darsi la statura drammatica che la nuova impostazione del dramma gli vorrebbe negare.
L’attore Tom Hiddleston esisterebbe senza Loki, non credo che Loki sarebbe potuto esistere, non con questa forza, almeno, senza la magia attoriale di Hiddleston che fluttua con mefistofelica eleganza sulle sorti di un personaggio che sembra ormai contribuire egli stesso, profondamente, a plasmare, a ogni scena. Si tratta della prestidigitazione del talento: tutto è sotto i tuoi occhi, eppure non lo vedi. Sfugge alle definizioni e agli incasellamenti, il talento, come Loki, presto o tardi, alle maglie della giustizia intergalattica. E si nasconde anche dalla circospezione, da quella certa alterigia di chi non riesce a vederlo, se non come riflesso della propria immagine.
Appunto, dicevo, Tom non è incardinato, se non per contratto, ai Marvel Studios, e la sua carriera prosegue, a margine di Loki, alternando il cinema, sempre più spesso d’autore, come nel caso di The Deep Blue Sea di Terence Davies o Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch, con la televisione di altissima qualità (è Henry IV e V in The Hollow Crown, per la BBC) e il teatro, suo luogo di formazione e di elezione. La sua ultima, acclamata fatica è Coriolanus (8): ancora Shakespeare, ancora molto sangue, per la regia di Josie Rourke.
Il sangue e l’oscurità, esteriori, allegorici, di Caio Marzio, di Adam, il poeta vampiro, custode della memoria, morto fra non vivi, non possono che condurci all’ultimo lavoro di Guillermo Del Toro, quel Crimson Peak, in questi giorni nelle nostre sale, sul quale a lungo si è congetturato.
E’ un lavoro strano, Crimson Peak, tanto più perché, a un primo sguardo, può sembrare il più convenzionale dei film dalle atmosfere gotiche.
Crimson Peak è invece tanto Edgar Allan Poe quanto Andy Warhol: se il primo fa gracchiare i corvi e fischiare gli stipiti consunti, il secondo spruzza di technicolor rosso e giallo una scurissima magione inglese, tutta guglie e spifferi, al tempo stesso evocatrice del castello di Otranto e di una sinistra Manderley, dove incombe non tanto il ritratto della prima moglie, quanto piuttosto quello di una signora Danvers, riletta in chiave di madre-matrigna, immortalata per ciò che era, non forse per quello che voleva sembrare. Ciò che Dorian Gray nascondeva, i fratelli Sharpe, di lei, esibiscono. E del resto non c’è “ubbidienza postuma” nelle loro gesta incestuose, via via più chiare ai nostri occhi, come a quelli spettrali delle presenze fantasmatiche che abitano nolenti i freddi ruderi.
Si comprende dunque come i cliché di una storia che più convenzionale non si potrebbe, nei suoi archetipi di Senex, di Madre, di Puer Aeternus, di Ombra e di Persona, e non ultimo di Sé, non sono altro se non il disegno del regista verso una ricostruzione in chiave pop di generi letterari e cinematografici a lui assai cari: accanto alla Rebecca, già citata, troviamo dunque il thé di Notorius e di Rosemary’s Baby, come pure riferimenti ai maestri dell’horror nostrani quali Mario Bava e Lucio Fulci. Vicino a Horace Walpole e alla coeva tradizione gotica, la letteratura femminile ottocentesca, su tutte Mary Shelley, a cui dichiaratamente la protagonista, Mia Wasikowska, si ispira beffardamente e a cui la sorte, più beffarda ancora, come sempre accade, la assocerà.
Non ultimo, in questo sincretismo che non è mai derivativa maniera, Del Toro pensa al Barbablù di Perrault con la variante curiosa e indicativa della proprietà del mazzo di chiavi dell’intera dimora: non è Thomas Sharpe, il novello marito al quale Hiddleston conferisce l’ambiguità del suo bellissimo volto, parimenti dolce e altero, inaffidabile e straziante, a custodirle, ma la di lui sorella Lucille (Jessica Chastain) che però le nega, con decisione, alla giovane, curiosa sposa.
E’ però a Monsieur Verdoux e ancora una volta alle riflessioni di Bazin, nel suo celebre Che cosa è il cinema?, che mi è venuto da pensare durante questa apparente storia di fantasmi, solo apparente, appunto, come le ombre che vi si agitano dentro disperate: la società che condanna a morte Verdoux/Barbablù, assassino per disperazione più che per vocazione, è fiera della propria giustizia, la stessa che si limitava a gettare in carcere lo scioperante di Tempi moderni.
La società borghese che nega un aiuto ai fratelli Sharpe, ridotti in miseria da un padre scialacquatore, è fiera di aver risistemato i propri tasselli etici ed economici laddove, per buona norma, devono stare. Poco importa quanti spettri abbia contribuito a creare, poco importa se la salvifica escavatrice, in funzione quando ormai non serve più, mescola un’argilla che ricorda troppo il sangue.
Una volta ancora è stato ucciso Charlot e “un altro fantasma si aggira per l’Europa”…
Ilaria Mainardi
Note
[1] Royal Academy of Dramatic Arts http://lowkeylowfison.tumblr.com/post/91539410427/hiddleston-daily-hiddlememes-full-clean
[2] Tom Hiddleston compare brevemente anche nel film tv Conspiracy, datato 2001 https://www.youtube.com/watch?v=vkZXs2gb8sw
[3] Qui una breve intervista a Kenneth Branagh http://www.youtube.com/watch?v=izxyk81DgJU
[4] http://www.youtube.com/watch?v=-SRUt0miPns&feature=related
[5] Kenneth Branagh in Ciak N°4 Aprile 2011
[6] Durante la roundtable Hiddleston racconta diversi aneddoti sulla lavorazione di Thor: http://www.youtube.com/watch?v=AhLwkUPaTJo
[7] Kenneth Branagh ha interpretato il ruolo di Edmond nel 2003, al Nationa Theatre di Londra: http://www.nationaltheatre.org.uk/?lid=4565&tmpl=whatsonpics
[8] http://www.theguardian.com/stage/2013/dec/18/coriolanus-review-donmar-warehouse