Marcellino, pane e basket
Da appassionati di film sportivi, questo Tiro libero ci incuriosiva non poco. Anche perché ci era stato introdotto quale lungometraggio in cui dalla vicenda di un atleta in crisi profonda, sia morale che fisica, di salute, si sarebbe gradualmente approdati alla riscoperta di determinati valori. Ciò ha reso forse la delusione più cocente. Per restare nell’ambito della metafora cestistica, un tiro libero si può mettere a segno come anche sbagliare. Ma qui gli autori al canestro non ci si sono neanche avvicinati, mancando pure il tabellone…
Girato coi tempi narrativi e le (scarse) attenzioni sul set che caratterizzano in genere le più scadenti fiction televisive, quello diretto dal marchigiano Alessandro Valori è un film che ci ha fatto tornare subito in mente i difetti, nella circostanza persino amplificati, del suo precedente lavoro, Come saltano i pesci. Ovvero tante buone intenzioni che non trovano purtroppo riscontro nella regia, fin troppo modaiola e convenzionale, ed in quello script che resta il vero tallone d’achille, coi suoi personaggi indisponenti e i dialoghi tanto inverosimili quanto ridicoli.
La sceneggiatura si sforza infatti sin dall’inizio di dipingere il protagonista Dario Lancillotti (quel Simone Riccioni che qui sembra avere dalla sua una sola espressione: la faccia da schiaffi), campioncino di basket con una famiglia straricca alle spalle, quale soggetto viziatissimo, egoista e arrogante, al quale nemmeno l’improvvisa scoperta di una malattia degenerativa sembrerebbe indurre un atteggiamento più maturo e responsabile nei confronti degli altri e della vita stessa. Quantomeno all’inizio. Subentra infatti l’inevitabile cotta per una bella ragazza dedita al volontariato. E a seguire un ritrovato “dialogo interiore” col Dio cui il vanesio ragazzo non aveva mai dato peso prima. Con il corollario, neanche a dirlo, di una squadretta di ragazzi disabili da allenare per il campionato: quegli “amicuccioli” (questo il nome che si sceglieranno strada facendo: contenti loro) che per giunta lo sfortunato, capriccioso talento del basket deciderà prima di ignorare platealmente, per poi cambiare radicalmente atteggiamento allorché la cosa si rivelerà utile a corteggiare la sventola così sensibile di cui sopra!
Certi aspetti del plot dovrebbero far già intuire un certo tipo di lettura emotiva, grossolana e ricattatoria. Ma lo svilupparsi dei dialoghi e delle situazioni va addirittura oltre. La famiglia di Dario, coi solitamente bravi Antonio Catania e Nancy Brilli ridotti quasi alla funzione di macchiette, fa rimpiangere in certi momenti la dozzinale e ottusa superficialità della famiglia di Sharon Zampetti, quella del mitico commendator Zampetti, ne I ragazzi della 3ª C. Sempre riguardo al protagonista, il suo continuo appellarsi a qualsiasi crocefisso, reliquia o dipinto cristiano gli capiti sotto tiro fa tristemente il verso, senza replicarne l’aura magica, un po’ a Don Camillo e un po’ al celebre Marcellino pane e vino (Marcelino pan y vino) di Ladislao Vajda, film spagnolo del 1955 che saturò la programmazione delle sale parrocchiali e a tratti della TV pubblica per tempo immemore. In dirittura d’arrivo due parole sulla pista del film sportivo, da cui eravamo partiti: assolutamente inconsistente e fallimentare, nonostante l’adesione al progetto di assi della pallacanestro come Carlton Myers, Carlo Recalcati e Luca Vitali, che potrebbero comunque attirare con la loro presenza la curiosità degli appassionati.
Stefano Coccia