Un neozelandese in versione “globale”
Scorrendo i crediti delle produzioni Marvel – ovviamente relative ai supereroi – un elemento balza immediatamente all’attenzione: alla casa madre piace sperimentare, percorrere nuove strade. Rinnovarsi. Da nomi celebri come Sam Raimi e Kenneth Branagh ad emergenti, almeno per il grande pubblico, quali gli indipendenti Anna Boden e Ryan Fleck, oppure il regista afroamericano Ryan Coogler. Questo potrebbe essere uno dei segreti della riuscita di lungometraggi che non si limitano alla spettacolarità fine a se stessa ma richiedono, anzi invocano, la complicità attiva di un pubblico pensante, disposto ad un intrattenimento che diviene utilissimo esercizio di fantasia. E tuttavia dubitiamo fortemente che la Marvel stessa potesse essere preparata al ciclone “revisionista” che sarebbe andato ad investire uno degli eroi più amati, quel Thor figlio di Odino già sottoposto, sul grande schermo, alla cura shakespeariana e classicheggiante del menzionato Kenneth Branagh in Thor del 2011. Cui sarebbe seguito l’innocuo, sebbene altamente spettacolare, Thor: The Dark World di Alan Taylor, datato 2013. Ma è con il terzo capitolo, Thor: Ragnarok (2017) che la rivoluzione si compie a tutti gli effetti. E qualsivoglia rivoluzione, si sa, porta sempre il nome ed il cognome di un artefice principale. In questo caso Taika Waititi, autentico folletto nativo di Wellington, in Nuova Zelanda nel 1975. Un eterno bambino, artisticamente parlando, con il divino dono di un’ironia dissacrante associata ad una sensibilità assai più profonda delle apparenze, sempre schierata dalla parte della diversità – in senso generale, non specificatamente sessuale – come ampiamente dimostrato in lungometraggi tipo Vita da vampiro – What We Do in the Shadows (2014), Selvaggi in fuga (2016) e il recentissimo Jojo Rabbit (2019).
Come operare, dunque, una volta alle prese con l’eroe dall’invincibile martello? Ricetta semplice, per Waititi. Facendo tabula rasa. Riportandolo ad una dimensione infantile attraverso la negazione dei suoi superpoteri. Thor: Ragnarok è un gioiello di comicità ambivalente. Dove la risata possiede anche la funzione pedagogica della maturazione sia per i personaggi sullo schermo che per gli spettatori. Andando ben oltre la canonica avventura, che pure è ben presente con tanto di villain femminile (simbolo eterno di castrazione?) in versione extra lusso interpretato da Cate Blanchett. In questo Thor: Ragnarok è in tutto e per tutto assimilabile ad un coming of age di gloriosa memoria, minimo comun denominatore di tutti i film diretti da Waititi. Solo che il soggetto è un ragazzone in apparenza ultra trentenne (ancora impersonato da un Chris Hemsworth eccellente nel prestarsi al gioco con notevoli dosi di autoironia) assolutamente convinto di poter gestire il proprio e l’altrui mondo (Asgard e la Terra) senza difficoltà alcuna. Perciò meritevole di una tanto bonaria quanto efficace lezione impartita nel corso di un’opera che, a dispetto del budget imponente, diventa soprattutto una dichiarazione di poetica. Esistenziale prima che cinematografica.
Accolto da un apprezzamento pressoché generale, Thor: Ragnarok ha definitivamente aperto le porte di Hollywood a Taika Waititi. L’uomo venuto da molto lontano ha scardinato i chiavistelli de La Mecca del Cinema con gli unici strumenti in proprio possesso: essere se stesso (recuperare anche i suoi film “di gioventù”, per credere) e mantenersi tale. Una cosa non facile da attuare, specie quando il resto dell’ipocrita mondo dello star system ti corteggia sino all’adulazione. Tanto di cappello, insomma. Il quarto capitolo, Thor: Love and Thunder (di imminente lavorazione) è già roba sua. Il processo di umanizzazione del supereroe continuerà. E, statene certi, si compirà sino alle più estreme conseguenze.
Daniele De Angelis