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The World to Come

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VOTO: 5

Memorie

Possono delle singole – e, apparentemente, insignificanti scelte registiche – influenzare le sorti di un intero lungometraggio? A volte, decisamente sì. Perché se, di fatto, fattori in alcuni contesti poco significanti come una voice over o un commento musicale non sempre hanno il loro peso, vi sono determinate situazioni in cui gli stessi ci vengono imposti in modo talmente prepotente da influenzare un’intera visione.

Questo, dunque, è ciò che è accaduto all’interno di The World to Come – per la regia di Mona Fastvold – presentato in corsa per il tanto ambito Leone d’Oro alla 77° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Qui, numerose potenzialità sono state inevitabilmente soffocate da scelte registiche poco felici, che hanno finito per appiattire totalmente la storia d’amore tra Abigail e Tallie, due giovani donne che vivono, insieme ai loro mariti, in campagna nel nord dello Stato di New York di metà Ottocento. Abigail ha da poco perso sua figlia a causa della difterite e per placare il proprio dolore inizia a scrivere – a partire dall’inizio dell’anno – tutte le sue vicende e le sue emozioni in un diario. Tallie, invece, non ha figli ed è continuamente vessata da un merito che, invece, ne vuole a tutti i costi perché è così che sta scritto nella Bibbia. L’incontro tra le due cambierà le vite di entrambe. Quale sarà, però, il prezzo da pagare?
The World to Come, in realtà, di base, di potenzialità ne avrebbe da vendere. Basti pensare anche soltanto alle location scelte, a suggestive sequenze che ci mostrano i paesaggi innevati con personaggi che si sentono sperduti al loro interno, ancora intenti come sono a tentare di conoscere quella loro nuova terra che è l’America. Come lo stesso titolo sta a suggerire, dunque, “il mondo che verrà” è ancora una terra inesplorata, troppo troppo grande per non farci sentire perduti.
Per contro, invece, gli interni ci sembrano, a volte, talmente tetri e angusti da spingerci a voler scappare, a scoprire cosa c’è fuori, a trovare la nostra vera vocazione. Proprio appunto, come accade alle due protagoniste. Sembra strano, dunque, che con tutte queste premesse non si riesca, di fatto, mai a empatizzare con loro. E ciò dipende, come già affermato, proprio dal tanto coraggioso quanto pericolosamente eccessivo approccio narrativo scelto dalla regista.
Abigail scrive un diario. E fin qui tutto bene. Peccato soltanto che ogni sua singola parola ci venga costantemente riportata in voice over durante tutta la visione, sporadicamente interrotta da brevi, brevissimi dialoghi privi quasi di contenuto. Allo stesso modo, le date di ogni singolo avvenimento si susseguono copiose tramite didascalie sullo schermo facendo perdere fluidità al racconto, già fortemente compromesso – come se non bastasse – anche da un costante, eccessivamente smielato commento musicale che sembra non voler mai cessare.
Il risultato finale è una visione che stanca, che sfianca. Una storia d’amore che si rivela essere tra le più banali, con tanto di risvolti narrativi di centrale importanza lasciati ingiustamente fuori campo. Mona Fastvold, stavolta, sembra proprio aver preso un abbaglio. Nonostante la collaborazione al lungometraggio del compagno Brady Corbet. Ma, si sa, momenti di défaillance, purtroppo, capitano (quasi) a tutti.

Marina Pavido

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